Categoria: Comaschi illustri

  • Doppia Onorificenza al Merito della Repubblica: Mauro Mascetti e Giovanni Lo Dato al Quirinale

    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito 33 onorificenze al Merito della Repubblica Italiana a cittadine e cittadini che si sono distinti per atti di eroismo, per l’impegno nella solidarietà, nel volontariato, per l’attività in favore dell’inclusione sociale, nella cooperazione internazionale, nella promozione della cultura, della legalità, del diritto alla salute e dei diritti dell’infanzia. Nell’elenco anche due comaschi. Mauro Mascetti, 48 anni e Giovanni Lo Dato, 70enne, protagonisti del salvataggio del gruppo di ragazzi che si trovava a bordo di un autobus – il 13 luglio scorso – che ha preso fuoco nella galleria Fiumelatte lungo la strada statale 36 che collega Lecco alla Valtellina, all’altezza di Varenna. Ecco le motivazioni dei nuovi insigniti comaschi dal Capo dello Stato: «Mauro Mascetti, 48 anni e Giovanni Lo Dato, 70 anni, rispettivamente Cavaliere e Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il loro lucido e tempestivo intervento nel mettere in salvo un gruppo di ragazzi minacciati dal divampare di un incendio». La cerimonia si svolgerà al Palazzo del Quirinale il 29 novembre alle ore 11.

  • A Toronto un busto dedicato a Giorgio Perlasca

    Al Centro Veneto di Toronto, città del Canada è stato in augurato un busto dedicato a Giorgio Perlasca (nell’immagine). Nato a Como il 31 gennaio del 1910, Perlasca durante la Seconda Guerra Mondiale salvò migliaia di ebrei a Budapest fingendosi console spagnolo. Nel corso della cerimonia un uomo di origine ungherese ha raccontato come la sua famiglia fu salvata proprio grazie a quello che è stato definito lo “Schindler italiano”.

    Tra l’altro proprio un anno fa la Fondazione Giorgio Perlasca pubblicò una guida dei luoghi di Budapest realizzata con le immagini pubblicate dal “Corriere di Como”, che con un reportage dalla capitale ungherese riportò le testimonianze dedicate all’illustre cittadino lariano. Una guida che è stata presentata a Venezia e a Budapest, con le foto realizzate da Massimo Moscardi che sono state oggetto, negli anni, di mostre ad Anzano del Parco, Seveso, San Fermo della Battaglia e Asola (Mantova).

  • Dieci anni fa la scomparsa di Enrico “Chicco” Rossi. Il ricordo del fotografo e iridato di pattinaggio

    Il 21 aprile del 2009 a 82 anni ci lasciava Enrico “Chicco” Rossi, Abbondino d’Oro per la città di Como, in gioventù campione di pattinaggio a rotelle – vinse anche un titolo iridato – e per anni fotografo per le testate giornalistiche locali. Lo ricordiamo con due articoli pubblicati sul nostro giornale. Il primo, scritto nei giorni della sua scomparsa, l’altro, una intervista realizzata nel 2003 a cinquant’anni dal suo trionfo ai campionati del mondo di pattinaggio a rotelle.

    Corriere di Como del 22 aprile 2009

    Campione dello sport, ma anche grande fotografo di cronaca. Enrico “Chicco” Rossi per decenni ha documentato le vicende della città, sempre in prima linea. Fu il primo, ad esempio, ad arrivare sul luogo del disastro aereo dell’Atr 42 a Barni, nell’ottobre del 1987 e a Sesto Calende, sul luogo del ritrovamento del corpo di Cristina Mazzotti, la ragazza di Eupilio rapita e poi uccisa nel 1975.Ma di episodi come questi se ne potrebbero elencare molti altri. Perché Enrico Rossi non era soltanto un fotografo, era anche e soprattutto un preziosissimo collaboratore e informatore dei tanti giornalisti con cui ha lavorato.Ne traccia un ricordo il giornalista Emilio Magni, che ha lavorato con Rossi nella redazione comasca de “Il Giorno”. «Mi viene in mente – racconta – la frase che ci diceva sempre quando portava a casa la foto di qualche persona di cui avevamo bisogno: “Uè nan, ghè la testina”».«“Chicco” aveva avuto due grandi maestri – aggiunge Magni – Natale Gagliardi e Adolfo Caldarini. Caldarini, in particolare, gli aveva spiegato che il giornalista non è come il bancario, che quando termina il suo lavoro può staccare. Un cronista è tale 24 ore su 24». E Rossi aveva fatto tesoro di questo insegnamento. «Era molto attento a ogni aspetto, conosceva tutta la città – sostiene ancora il giornalista – ed era una preziosa fonte di notizie. Sia di quelle curiose sia della cronaca “bianca”. Ma aveva contatti con tutte le forze dell’ordine e sapeva risolvere ogni problema quando non riuscivamo a portare a casa le notizie. Lui era sempre ottimista e sapeva che tutto sarebbe andato per il meglio. Aveva un rapporto stupendo con tutti gli informatori».Sua preziosa collaboratrice, la moglie Carla. «All’epoca non c’erano i telefonini e le macchine digitali – conclude Magni – e così “Chicco” girava con una radio collegata a casa. Con questa chiamava la moglie e le diceva di comunicare alle redazioni che aveva trovato l’immagine richiesta o di preparare la camera di sviluppo delle foto. A suo modo è stato un precursore della comunicazione con i cellulari».

    Il dolore tocca anche il mondo dello sport – Rossi negli anni ’50 era stato un campione di pattinaggio: fu, con il fratello Mario e Giulio Fasana il precursore del pattinaggio a rotelle sul Lario.Il punto più alto della sua carriera agonistica fu il 20 settembre del 1953 quando Rossi, allora 26enne, conquistò il titolo mondiale di pattinaggio a rotelle sulla distanza dei 10mila metri. Ma le soddisfazioni per lui furono molte, con altri titoli iridati con le staffette e quindici campionati tricolori.Il 9 novembre del 1947, inoltre, Enrico Rossi ottenne sette record mondiali di velocità sfrecciando sul tratto di strada tra Mandello del Lario e Colico. In seguito ha anche avuto il merito di vincere tre titoli tricolori di tiro al piattello.«Ero bravo a scattare nel finale delle gare e a lasciarmi alle spalle gli avversari, come in occasione del successo iridato» amava ricordare Rossi, che raccontava sempre con piacere le sue imprese e ricordava volentieri i campioni di altre discipline (teneva molto, ad esempio, a una foto con il grande pugile Tiberio Mitri).Erano davvero altri tempi, quelli in cui lui gareggiava, come dimostra l’accoglienza di suo padre al rientro da Venezia, dalla trasferta in cui “Chicco” vinse il titolo iridato. «Papà mi diede una sberla – ricordava Rossi – Gli avevo infatti detto che mi sarei allontanato da Como per lavoro. Invece ero andato ai Mondiali. Era ovviamente contento per il successo che avevo ottenuto, ma non aveva gradito la bugia».

    Corriere di Como, 20 settembre 2003

    Sono passati cinquant’anni dalla conquista della medaglia d’oro ai campionati del mondo di pattinaggio a rotelle, ma Enrico “Chicco” Rossi ricorda quel momento con le emozioni e la vivacità di quel ragazzo. Con gli occhi lucidi e con a fianco l’affettuosa moglie, sfoglia i numerosi album di fotografie in cerca di episodi che gli diano spunto per raccontare con entusiasmo e gioia la vita di uno sportivo.L’iridato del 1953, poi notissimo fotoreporter della “Notte” e del “Giorno”, ripercorre gli anni della sua gioventù e analizza con lucidità invidiabile le imprese sportive coronate da successi.«Quando gareggiavamo io e mio fratello Mario, lo sport era concepito in modo diverso rispetto a quello che avviene al giorno d’oggi – esordisce Chicco Rossi – Praticando il pattinaggio su strada non si viveva di rendita grazie allo sport. Bisognava avere un lavoro fisso e tanta passione che permettesse di avere la forza di allenarti. Quando vinsi a Venezia – prosegue il campione – il Coni mi diede 50.000 lire in buoni novennali. Nulla a che vedere con gli stipendi degli sportivi d’oggi».Diversi erano anche i metodi di allenamento…«Assolutamente diversi. Per allenarci, eravamo soliti compiere giri attorno a piazzale Giulio Cesare. Ci si allenava a giorni alterni, ma mentre gli atleti di nuova generazione si allenano per una gara di una disciplina specifica, noi partecipavamo a più gare di diverso chilometraggio, tutte lo stesso giorno».Quali sono i ricordi più cari della sua lunga carriera sportiva? «Il titolo mondiale del 1953 mi diede fama e lustro, ma vestire la maglia azzurra e sentire l’Inno di Mameli dopo ogni vittoria agli Assoluti (“Chicco” Rossi ne vinse ben sette, ndr) era per me un’emozione ancor più intensa. Questo perché mi sento italiano e comasco».A proposito di Como, quali sono i ricordi più vivi che la legano a questa città?«A seguito di una rara malattia ossea ho trascorso ben undici mesi nei letti di ospedali diversi, mai abbandonato dall’affetto della famiglia. Quando si è concluso questo doloroso pellegrinaggio, prima di tornare a casa ho espresso il desiderio di rivedere il lago». Un gesto di grande amore verso Como…«Sono sempre stato molto legato a questa città a tal punto che pur di non allontanarmi dal Lario, in gioventù ho rinunciato ad una proposta di lavoro allettante».Tornando alla conquista della maglia iridata, cosa prova guardando le fotografie del 1953?«Il primo pensiero che corre nella mia mente va ai miei genitori e a mio fratello, grande compagno di squadra. E’ stato un giorno meraviglioso e indimenticabile. Quella maglia non la tolsi per giorni, neanche la notte»

  • Dieci anni fa moriva Antonio Ratti. La figlia Donatella: «Era un innovatore Aveva capito come sarebbe andata»

    Dieci anni fa moriva Antonio Ratti. La figlia Donatella: «Era un innovatore Aveva capito come sarebbe andata»

    «Fu il primo a comprendere il ruolo che avrebbe avuto la Cina»«In questi 10 anni è cambiato il mondo. A pensarci bene, però, nella nostra azienda il cambiamento era iniziato già tempo prima. Mio padre lo aveva anticipato».L’orgoglio si mischia alla commozione nella voce di Donatella Ratti. Domani saranno trascorsi esattamente 10 anni dal giorno in cui il padre Antonio ha chiuso gli occhi per sempre. Ma è sufficiente scambiare poche parole con l’imprenditrice comasca per accorgersi che, per lei, il papà è ancora lì, al suo posto, in azienda.Pronto a estrarre dalla tasca l’immancabile blocchetto e la matita per «buttare giù una nuova idea».Nato nel 1915, dopo un periodo come apprendista disegnatore, il 25 aprile 1945 Antonio Ratti fonda la sua ditta, la Tessitura Serica Antonio Ratti, che in pochi anni diventa uno dei punti di riferimento dell’industria tessile non soltanto lariana, al punto che nel 1972 l’imprenditore ottiene la nomina a Cavaliere del lavoro.Quotata in Borsa dal 1989, da 2 anni la società è controllata dal gruppo vicentino Marzotto. Donatella, che dalla morte del padre ha preso le redini della società, oggi è presidente del gruppo. La sorella Annie guida invece la Fondazione Antonio Ratti, creata nel 1985 dallo stesso Cavaliere con l’obiettivo di promuovere e favorire iniziative, ricerche e studi di interesse artistico, culturale e tecnologico nel campo tessile.«Come imprenditore e come uomo mio padre ha sempre avuto lo sguardo proiettato in avanti – dice Donatella – Per molti versi, ha anticipato gran parte dei cambiamenti che in questi ultimi anni hanno rivoluzionato il mondo. Penso, ad esempio, alla sua visione internazionale: papà ha anticipato la globalizzazione come ottica imprenditoriale. Per lui era evidente l’importanza del rapporto con le altre culture, aveva la sensibilità giusta e la capacità a livello creativo di interpretare altri Paesi». L’impronta del fondatore oggi è ancora ben evidente nella società. «Papà ha avviato una scuola che oggi permette all’azienda di essere ancora una delle più belle e importanti del settore, anche se ha mutato pelle perché il mondo è cambiato completamente – prosegue la figlia di Antonio Ratti – In un certo senso, la sua generazione, che ha vissuto la guerra, ha perso tutto ma ha trovato la forza di ripartire, riflette ciò che stanno vivendo oggi i giovani. L’auspicio è che anche questa generazione sappia ritrovare la chiave di un’imprenditoria generosa e con essa la voglia di ricominciare».Per quanto riguarda la Cina, Antonio Ratti era andato addirittura troppo avanti.«Il cambiamento che l’azienda ha fatto in questi anni era già stato avviato da mio padre – spiega Donatella – Lui aveva percepito chiaramente che l’avvento della Cina avrebbe portato nel tessile trasformazioni forti. Addirittura, aveva già tentato di allearsi con i cinesi negli anni Settanta, forse troppo presto perché la forma politica allora non era aperta a un vero parternariato».Dopo la scomparsa del fondatore della Ratti, prosegue Donatella, «abbiamo continuato sulla strada che lui aveva avviato puntando sulla ricerca tecnologica e creativa. Lavoriamo sull’innovazione, ad esempio per quanto riguarda pigmenti e finissaggi, ma anche lasciando spazio ai giovani, pure alle “promesse” che arrivano dall’estero, in particolare dai Paesi dell’Est – continua la presidente del gruppo di Guanzate – Mio padre era un imprenditore a 360 gradi, uno che si occupava di tutto: dal disegno al rapporto con il cliente. Oggi ci sono figure più specializzate, in azienda ciascuno ha un proprio settore, che gestisce però con la stessa vena creativa e la stessa voglia di ricercare cose nuove e originali».Il primo decennio della Ratti senza il suo fondatore è coinciso con una crisi mondiale che non ha certo risparmiato il distretto tessile comasco e che, anzi, ne ha messo in dubbio il futuro. «Sono convinta che a Como ci sia ancora spazio per il tessile – afferma convinta Donatella Ratti – Per quanto mi riguarda, ho fatto la scelta dell’aggregazione per entrare a far parte di un polo più importante e per poter allargare l’attenzione ad altri prodotti quali la lana e il cotone. A Como, e più in generale in Italia, sono convinta che vi sia futuro per le aziende che sanno aprirsi, cambiare pelle, ripensarsi».Parallelamente all’attività dell’azienda di famiglia, prosegue anche l’attività della Fondazione Antonio Ratti.In passato, c’era stata qualche polemica con gli enti locali per la presunta, scarsa attenzione al lavoro della stessa Fondazione.«Oggi il clima è cambiato – conclude Donatella Ratti – I comaschi, ogni tanto, sono un po’ polemici, è nella loro natura. Poi, in realtà, c’è spazio per lavorare sul bello, nel campo del tessuto e dell’arte moderna. Il bello ha sempre un senso».Antonio Ratti, quando ha dato vita alla Fondazione, aveva già pensato anche a questo.

  • Addio a Milva, scomparsa a 81 anni. Amava il Lario e Blevio

    Addio a Milva, scomparsa a 81 anni. Amava il Lario e Blevio

    Addio a uno dei più grandi personaggi dello spettacolo italiano. All’età di 81 anni è morta ieri, nella sua casa di Milano, Milva. Da sempre Maria Ilva Biolcati – in arte Milva – è stata legata a Como e al suo lago. Il suo rifugio era infatti a Blevio, a Villa Cademartori.Cantante e attrice, Milva, originaria di Goro, è stata una artista apprezzata non solo in Italia, ma in tutto il mondo.Ha ricevuto infatti le più importanti onorificenze di Francia, Germania e Italia. Tra le sua qualità, lo spaziare da un genere musicale all’altro, da canzoni più impegnate, a quelle più leggere. Una decina di anni fa il suo addio alle scene.

    Numerose le sue partecipazioni al Festival di Sanremo. L’ultima nel 2007 con la canzone “The show must go on”, scritta da Giorgio Faletti.La prima era stata nel 1961, quando aveva cantato con Gino Latilla “Il mare nel cassetto”, piazzandosi al terzo posto. Proprio a Sanremo nel 2018 le era stato attribuito il premio alla carriera, ritirato dalla figlia Martina Corgnati.

    Blevio la piange e la ricorda anche per l’aiuto che la cantante ha dato al restauro dell’organo storico Prestinari nella suggestiva chiesa a lago intitolata ai santi Gordiano ed Epimaco. Sul sito dell’associazione Prestinari 1821, che tutela e promuove la conoscenza dello storico strumento che ha duecento anni e che ha appena eletto come presidente Evelina Borgesi, c’è la cronistoria dello storico concerto che la cantante tenne al Casinò di Campione d’Italia il 14 gennaio 1989 e il cui cachet fu devoluto appunto al restauro del prezioso strumento musicale lariano.

  • Tributo a “Lele” Pinto, leggenda dei rally

    Tributo a “Lele” Pinto, leggenda dei rally

    «Perdiamo un grande personaggio, un pezzo di storia dei rally mondiali». Con queste parole l’amico Alberto Casati ricorda Raffaele “Lele” Pinto, scomparso ieri a Cecina, in Toscana, all’età di 75 anni. Comasco di origine – era nato a Casnate il 13 aprile del 1945 – Pinto da anni aveva scelto di vivere all’Isola d’Elba, ma ad ogni Natale ritornava nella sua casa di San Fedele, in Valle Intelvi, dove riuniva per una cena i rallisti del passato con cui aveva condiviso i tempi pionieristici della specialità.Un pilota lariano che è stato ai vertici della specialità: tra i suoi successi più importanti, quello nel Campionato europeo del 1972, in un periodo in cui il Mondiale – quello che oggi conosciamo come Wrc e che domenica scorsa si è concluso con la corsa di Monza – non esisteva ancora. I migliori driver si confrontavano dunque nella serie continentale. Quell’anno Pinto, sempre a bordo di una Fiat 124 Abarth, trionfò anche in un altro campionato europeo, la Mitropa.Nel 1974 per Pinto giunse una vittoria in una prova del Mondiale, che nel frattempo era stato istituito, al Tap rally del Portogallo, con alle note Arnaldo Bernacchini.Come pilota ufficiale del team Fiat-Lancia, Raffaele Pinto ha partecipato alle più importanti gare dell’epoca, portando a casa successi e altri podi iridati, come il terzo al Sanremo nel 1976 con la Lancia Stratos e il secondo al Tour del Corse nel 1977. Per lui, quest’ultimo risultato fu un boccone amaro da digerire. La corsa fu infatti vinta dal francese Bernard Darniche, su Fiat 131, con Pinto, su Stratos, che partiva dietro di lui e che lo raggiungeva in prova speciale.Il problema è che quella era una fase di lancio per la 131, mentre la Stratos iniziava ad essere considerata “vecchia”. Praticamente per ragioni di marketing si preferì far vincere in Francia un transalpino con una auto più nuova.Una delusione enorme per il comasco, che dall’anno dopo iniziò a utilizzare, sempre nei rally, una Ferrari 308 Gtb, con cui conquistò, con alle note Fabio Penariol, il terzo posto al Rally di Monza – sempre quello che ha chiuso il Wrc 2020 – del 1978 e, nel 1979, la vittoria assoluta nella stessa gara, che lo ha visto protagonista anche nel 1984 con un prototipo Ferrari Imsa, indimenticabile per gli appassionati che lo videro in azione. Quell’anno terminò in quarta posizione.Pinto, peraltro, aveva iniziato a correre nelle salite a metà degli anni ‘60 e poi in pista, per passare ai rally alle fine del decennio. Nel suo palmares vanta la partecipazione alla Targa Florio – quella storica e “vera” – in coppia con altri grandi come Sandro Munari e il suo coetaneo Jean Ragnotti. Prese parte anche al Giro d’Italia, evento di qualche decennio fa che prevedeva prove speciali in circuito e su strada. Spesso gli equipaggi erano composti da rallisti e “pistaioli” che si alternavano alla guida: con Pinto questo non avveniva perché era competitivo in entrambi i casi.Pilota di altissimo livello ma non solo. Pinto è stato anche a lungo collaudatore per le vetture del gruppo Fiat e Lancia. Tra le auto che ha sviluppato, la Lancia Delta campione del mondo negli anni ‘80: non a caso uno tra i primi a esprimere il cordoglio per la scomparsa – con la foto pubblicata in alto – è stato Miki Biasion, iridato con quel mezzo nel 1988 e 1989.

  • Carla Porta Musa, un’eredità in forma di mosaico

    Personaggi. Domani ricorre l’anniversario della scomparsa della scrittrice Carla Porta Musa, morta a 110 anni. Alle 9 messa di suffragio in San GiulianoIn quanti modi si può ricordare, a un anno dalla morte, una personalità poliedrica, che ha attraversato due secoli nella sua lunga e prolifica vita e ha lasciato un’eredità diffusa quanto variegata?La poetessa e narratrice comasca Carla Porta Musa è mancata il 10 ottobre 2012, all’età di 110 anni. Ma è come se fosse qui tra noi. Lo confermano le parole della figlia Livia Porta, presidente dell’Istituto Carducci di viale Cavallotti fondato dal padre di Carla, Enrico: «Mia madre è sempre presente nel cuore dei comaschi – ricorda commossa – La sua eredità la percepisco nelle persone che incontro, anche il qualità di presidente dell’Istituto “Giosue Carducci” che è tuttora un punto di riferimento per la cultura comasca: è come vedere un mosaico che, nelle parole dei tanti che me la ricordano, mi chiedono di questo o quel particolare episodio che la riguardava, viene ricomposto e disegna la figura della mamma. Un’eredità insomma diffusa e ancora molto presente. Tutto me la ricorda, al Carducci. Ed è, la sua, una memoria che vive, certo, anche nelle pagine dei tanti libri che ci ha lasciato: il pubblico ha imparato a conoscerla e ad apprezzarla sotto varie forme: la romanziera, la scrittrice di racconti, la poetessa, la giornalista con tanti contributi su periodici e quotidiani. E anche la custode delle memorie della sua città. In molti l’hanno amata per l’umanità e la freschezza che trasmetteva nei suoi tanti incontri pubblici, cui non si è mai sottratta nemmeno negli ultimi anni della sua lunga vita».Carla Porta Musa, dall’alto di un’esperienza di vita e di scrittura tanto longeva, ha parlato per una vita ai comaschi e anche al resto d’Italia, data la sua fama, proprio con tanti romanzi, racconti e raccolte di versi. Il suo ultimo libro, il romanzo breve (o racconto lungo che dir si voglia) Le tre zitelle, fu pubblicato nel 2010, a coronamento di una “quarta età” particolarmente fervida che l’aveva portata ancora una volta a cimentarsi sia con la prosa che con la poesia.«Sono soprattutto le opere in versi che secondo il mio parere sarebbero da ristampare – dice Livia Porta al “Corriere di Como” – Penso che si potrebbe allestire con facilità un florilegio delle sue tante raccolte, magari anche senza un ordine cronologico o tematico in senso stretto. I suoi testi poetici nella loro estrema vitalità sono parole che parlano ancora al cuore di tutti, ricche di immagini ancora vibranti che saltano agli occhi di chi legge. Sono pagine limpide come era del resto mia madre».Una vita lunghissima, un mare di ricordi. Livia Porta ne lascia affiorare uno: «È una donna, Fiorina Agabiti, sorella di un noto professore. Oggi avrebbe 130 anni. Fu la confidente prediletta di mamma. Andava da lei ogni volta che si sentiva il cuore gonfio. Era una donna di buon senso, piena di umanità. Ce ne fossero, oggi, di donne così».Domani alle 9 nella chiesa di San Giuliano a Como verrà celebrata una messa in suffragio della scrittrice. E alle 18, l’evento commemorativo “laico” nel giorno del primo anniversario della morte: è prevista proprio al Carducci la presentazione del libro “Amici e maestri. Incontri di una vita”.Sempre domani Carla sarà ricordata anche in musica. A lei infatti sarà dedicato il concerto verdiano del Teatro Sociale di piazza Verdi, promosso in collaborazione con il Soroptimist International Club di Como (di cui la scrittrice fu socia fondatrice nel 1954). Sarà una serata tutta in onore di Giuseppe Verdi a duecento anni esatti dalla nascita. È in cartellone l’esecuzione della “Messa di Requiem” (trascrizione per due pianoforti e sole voci). L’appuntamento è fissato per le 20.30. Sul palco saliranno il soprano Maria Teresa Leva, il mezzosoprano Irene Molinari, il tenore Gianni Leccese, il basso Kyoung Na; ai pianoforti Roberto Esposito e Luigi Nicolardi. Il progetto è di Francesca Parvizyar, la trascrizione per due pianoforti e sole voci di Angela Montemurro.Il concerto si inserisce all’interno di “Waiting for?”, un progetto di Francesca Parvizyar, ideatrice di format culturali con un passato da cantante lirica. Un omaggio al celebre musicista – a 200 anni dalla sua nascita appunto – che si distingue per l’attenzione ai giovani talenti e per la scelta di esecuzioni particolari.Il costo del biglietto d’ingresso per la serata del Sociale è di 20 euro, più 2,5 euro di prevendita.

  • Alessandro Maggiolini, vescovo e comunicatore: portò il Papa a Como

    Alessandro Maggiolini, vescovo e comunicatore: portò il Papa a Como

    La leggenda vuole che Alessandro Maggiolini sia diventato vescovo di Como al posto del canturino Giovanni Saldarini, originariamente designato. Il primo era destinato a Torino; l’altro al Lario e alla Valtellina. All’ultimo momento, secondo la vulgata di alcuni ambienti ecclesiali, le buste con le nomine sarebbero state invertite. Sta di fatto che domenica 19 marzo 1989 il successore di Teresio Ferraroni faceva il suo ingresso in città, accompagnato da una fama importante e da una Chiesa locale combattuta fra timori e attese.

    Il 113° pastore della Diocesi era percepito come un fine “intellettuale”.Docente da un quarto di secolo all’Università Cattolica di Milano, era noto come studioso, scrittore e conferenziere.Avrebbe saputo trovare il passo giusto per occuparsi di una comunità cristiana estesa sul territorio di tre province, destinate ben presto a diventare quattro: Como, Sondrio e, sia pure in piccola parte, Varese e Lecco?

    Altri si chiedevano quanto avrebbe pesato nell’incedere del nuovo vescovo uno stile che pareva improntato più alle certezze che al dubbio: non mancava chi lo definiva vicino al movimento di Comunione e Liberazione. Pochi ne avevano in mente le fattezze fisiche, molti però ne avevano ascoltato voce e parole nella fortunata trasmissione radiofonica “Ascolta si fa sera”, in onda sulla Rai. Alessandro Maggiolini aveva saputo entrare così in molte case e guadagnarsi una consolidata fama di comunicatore. Il presule giungeva a Como all’età di 58 anni, nel pieno delle forze.Milanese, conosceva già la terra lariana. Da seminarista vi aveva trascorso le vacanze estive ad Albese, dallo zio don Carlo. Aveva più volte fatto visita alle religiose di Ossuccio, alla parrocchia di Castiglione Intelvi e al Crocifisso, il santuario dell’Annunciata in viale Varese. A Como, poi, era legato per la tessera di giornalista professionista, ottenuta grazie alla collaborazione con lo storico quotidiano cattolico “l’Ordine” di don Peppino Brusadelli.

    Quella domenica primaverile di marzo tutti attendevano un segnale che permettesse di decifrare subito la personalità del nuovo pastore. E i gesti vennero, in modo semplice e diretto. Dopo aver sostato in preghiera a Camerlata sulla tomba del primo vescovo, Felice, Maggiolini incontrò dapprima i poveri e gli ammalati alla Casa della Divina Provvidenza, il “Don Guanella”, e poi i giovani, con i quali si diresse in corteo informale fino al Duomo. Qui concluse l’omelia con una frase, che faceva piazza pulita di tante congetture: «La mia vita è per voi. Lo dico con tremore, ma la mia vita è per voi». In tutti gli anni che seguirono il presule che veniva dalla piccola Diocesi “rossa” di Carpi, in Emilia Romagna, non ha mai smesso il mestiere dell’intellettuale, non ha mai rinunciato a parlare e a far parlare di sé attraverso i mass-media. Ma, fedele alla consegna, non l’ha mai fatto a scapito della Chiesa comense.

    Chi lo incontrava nel suo studio, in vescovado, s’imbatteva in un Maggiolini in maniche di camicia, con la scrivania ingombra di libri disposti in precario equilibrio su varie pile. Discorreva volentieri di tutto, anche se prediligeva la filosofia. Per lui, passare dal filosofo Jean Guitton all’attualità era un fatto assolutamente naturale. Capitava di incrociarlo magari a un convegno nazionale della stampa cattolica, pronto a svolgere una relazione ponderosa e provocatoria sul modo di fare comunicazione in Italia. «Qualcuno deve pur cominciare a dire queste cose», sbottava poi soddisfatto a microfoni spenti, accendendosi una sigaretta. Un piacere a cui dovette rinunciare soltanto quando si manifestarono i primi sintomi della grave malattia polmonare che lo avrebbe portato alla morte. L’interesse per la ribalta culturale, appagato anche da apparizioni televisive, non ha davvero distolto Maggiolini dal ruolo di vescovo di Como. All’inizio si esprimeva con una certa durezza formale nei confronti dei suoi preti, ai quali rivolgeva indicazioni pastorali che contemplavano il verbo «esigo» coniugato in prima persona. Poi la conoscenza diretta ha smussato l’imperativo, pur senza rinunce agli obiettivi fissati.

    Scomodo e talvolta incurante di prestare il fianco a equivoci il suo rapporto con la politica. Nei primi anni di presenza a Como, Maggiolini spinse riservatamente l’acceleratore sulla necessità di rinnovamento della Democrazia Cristiana e degli uomini che rappresentavano il territorio lariano in Parlamento. In via Diaz, sede di quello che all’epoca era il partito di maggioranza relativa, non tutti gradirono. Appoggiò l’amico filosofo Rocco Buttiglione, segretario del Partito Popolare, nei giorni della drammatica frattura interna. Incontrò segretamente il leader della Lega, Umberto Bossi, che gli chiese udienza in vescovado a Como.

    Nell’occasione si affermò il mito di una tessera ad honorem del Carroccio consegnata al presule dall’allora leader dei “lumbard”. La nomea di “vescovo leghista”, del resto, era rimasta appiccicata a Maggiolini alla vigilia della storica visita di Papa Giovanni Paolo II a Como nel maggio 1996. L’estrapolazione di alcune frasi da un’intervista al Tg1, che pareva inequivocabilmente dar ragione alle idee del “senatur”, guastò le ore che precedevano l’evento tanto atteso sul Lario. Il vescovo, profondamente amareggiato, smentì tutto.

    L’incidente di percorso della vigilia non intaccò comunque le storiche giornate comasche di Giovanni Paolo II: il vero vertice dell’episcopato maggioliniano. Le immagini del pontefice benedicente e del presule sorridente, fianco a fianco sulla “papamobile” nel centro di Como, resteranno per sempre impresse negli occhi di molti.Maggiolini non ha mai disdegnato interventi anche sulla politica nazionale, sempre circa argomenti cari alla Chiesa. L’ultima sortita, alla vigilia delle elezioni politiche 2006, esprimeva duri giudizi sulle questioni della famiglia, delle unioni omosessuali e dei Pacs (convivenze di coppia a cui la legge riconosce uno status giuridico), lasciando intendere la preferenza per lo schieramento che le escludeva: il centrodestra.

    Con Maggiolini, poi, la festività del patrono Sant’Abbondio è diventata l’occasione di importanti discorsi alla città. L’omelia della messa solenne nella basilica, il pomeriggio del 31 agosto, è stata quasi sempre un momento di riflessione in chiave religiosa, ma anche etica e culturale, sui grandi temi che toccano l’uomo.

    Il vescovo ha spronato le autorità a risolvere questioni aperte da tempo: la Ticosa, il nuovo ospedale. Ha stigmatizzato gli eccessi di litigiosità di amministratori pubblici e politici. Ha affermato il valore delle scuole libere e lamentato i limiti degli aiuti statali. È intervenuto più volte sul rapporto con l’Islam e sul pericolo di una “invasione” musulmana: un vero leitmotiv dei suoi ultimi anni. Maggiolini fece parte del Comitato di redazione per il nuovo Catechismo Universale della Chiesa Cattolica.

    Il 21 dicembre 2003 fu costretto ad annunciare la rinunzia a un Sinodo per la Diocesi di Como. La causa, un ricovero in ospedale con relativo intervento chirurgico: «Sapete che non uso molti giri di parole – spiegò una breve nota ufficiale – Si tratta di un cancro al polmone sinistro». La malattia costringerà il vescovo a frequenti cure senza mai venir meno al suo mandato. E così è stato fino alle 22.13 di martedì 11 novembre 2008, quando Maggiolini è spirato in una camera dell’ospedale Valduce, dov’era ricoverato da oltre un mese, dopo 18 anni di servizio episcopale in Diocesi nel corso dei quali, ha visitato tutte le parrocchie, ha ordinato oltre cento preti e consacrato tre vescovi.

    Era nato a Bareggio, in provincia di Milano, il 15 luglio 1931. Si era congedato da vescovo titolare, diventando emerito e lasciando il posto al successore Diego Coletti il 14 gennaio 2007. È sepolto nel Duomo di Como, accanto all’altare dell’Assunta. Nel 2009 la città gli ha dedicato i giardini di piazza Verdi, alle spalle della cattedrale e a ridosso della casa dove ha vissuto gli ultimi anni di vita.

  • “Comaschi – Persone e fatti del Novecento” raddoppia

    “Comaschi – Persone e fatti del Novecento” raddoppia

    “Comaschi – Persone e fatti del Novecento” raddoppia. Dopo il primo volume, pubblicato nel 2012, la Società Cooperativa Editoriale Lariana propone un nuovo libro dell’autore Marco Guggiari, con lo stesso titolo e la seconda serie, inedita, di personaggi che a vario titolo hanno “segnato” il territorio lariano nel secolo scorso.

    In
    tutto, 37 profili di altrettante figure significative in diversi ambiti: dalla
    letteratura allo spettacolo, dall’arte alla creatività, dall’insegnamento alla
    scienza, dalla politica all’industria, dalla fede alla solidarietà, dalla
    cronaca allo sport. Ritratti frutto di un lavoro di ampia ricerca bibliografica
    e di incontri personali dell’autore, descritti in pagine di sintesi, ricchi di
    aneddoti, caratterizzati da tratti originali e freschezza di scrittura.

    Per
    le sue specificità “Comaschi” si presta a una modalità di lettura e di
    consultazione libera, non necessariamente nell’ordine prestabilito dalla prima
    all’ultima pagina. Ogni “medaglione” è infatti autonomo, ha storia a sé.

    Nel
    suo complesso, il libro fa memoria di squarci locali del Novecento, offrendosi
    a una lettura godibile, mai pedante, pur nel rigore delle fonti e dei
    riscontri.

    Nell’occasione,
    l’editore ha deciso di ristampare il primo volume della serie, che sarà così
    disponibile, a richiesta, con la possibilità di comporre un agile cofanetto di
    entrambe le serie di “Comaschi”.

    L’autore,
    Marco Guggiari, è giornalista professionista e attualmente collabora al
    “Corriere di Como” in qualità di opinionista. È titolare della “stanza”
    domenicale “Fatti sCOMOdi”, che si occupa di vicende relative alla vita
    cittadina e della provincia lariana e interviene sul giornale anche con altri
    contributi.

    Il nuovo libro sarà in vendita da domani al prezzo di 15 euro. La prima presentazione  sarà venerdì  alle 17.45 nell’auditorium di via Sant’Abbondio 4 a Como. Con l’autore, introdurrà la serata il direttore del Corriere di Como e di Etv, Mario Rapisarda. Ingresso libero.

  • Binda: «Conobbi Gianni Versace negli anni Ottanta, Santo mi telefonò poco dopo la tragedia». Il ricordo dello   stilista ucciso a Miami

    Binda: «Conobbi Gianni Versace negli anni Ottanta, Santo mi telefonò poco dopo la tragedia». Il ricordo dello stilista ucciso a Miami

    Compirebbe 73 anni Gianni Versace, nato il 2 dicembre 1946, se non fosse stato assassinato con due colpi di pistola sparati alla nuca da Andrew Cunanan sulle scale della sua villa di Miami il 15 luglio 1997. L’omicida, un serial killer, fu a sua volta trovato morto in una casa galleggiante e il movente di quel delitto non è mai stato chiarito in modo definitivo.La vita del grande stilista si è a lungo intrecciata con il Lago di Como, che Versace aveva eletto a suo buon ritiro scegliendo Villa Fontanelle a Moltrasio. Ne parliamo con l’imprenditore serico comasco Nini Binda, al quale il fratello di Gianni, Santo, si rivolse con una drammatica telefonata dagli Stati Uniti poche ore dopo la tragedia.«Ricordo bene quella terribile chiamata, Santo era disperato – ricorda Binda – All’epoca io ero assessore nella prima giunta di Alberto Botta. Conoscevo da tempo la famiglia Versace e il fratello di Gianni mi lanciò un grido d’aiuto: “Mi rivolgo a te perché so che eravate amici. Gianni, in caso di morte, aveva espresso il desiderio di essere seppellito sul Lago di Como».In breve, la famiglia cercava una soluzione prima del mesto rimpatrio. Binda avvisò il sindaco Botta e si diede subito da fare, ma la disponibilità di una cappella cimiteriale comportava una lunga lista d’attesa a causa delle numerose richieste anche da parte di illustri comaschi.Si ipotizzò dunque che l’urna con le ceneri di Gianni fosse ospitata temporaneamente nella cappella di famiglia dello stesso Nini Binda. Poi, però, Santo Versace richiamò l’imprenditore lariano avvisandolo che lui e la sorella Donatella avevano deciso per la sepoltura nel cimitero di Moltrasio dove, tra l’altro, in seguito sarebbe avvenuto un assurdo tentativo di vandalismo.Quella intrattenuta da Binda con la famiglia Versace è stata una lunga consuetudine che parte da lontano. «Avevo conosciuto Gianni negli anni Ottanta – spiega ancora l’imprenditore – Era il periodo delle festività natalizie e lui venne a Como, visitò la mia azienda. Era un disegnatore della famosa Genny. Pranzammo assieme, poi facemmo quattro passi e infine andammo in auto al Pizzo di Cernobbio, da dove gli mostrai Villa Fontanelle, che era in vendita. Si innamorò follemente del nostro lago, acquistò la villa e mi riceveva lì per scegliere i disegni per la sua maison».Versace crebbe sempre di più e divenne uno stilista di fama internazionale, una vera e propria star. L’azienda di Nini Binda era specializzata in accessori d’abbigliamento da uomo e gli lanciò l’idea di distribuirli. «Un giorno – prosegue il racconto – mi trovavo a Parigi da Dior e mi raggiunse una telefonata del mio stretto collaboratore Pierluigi Mascetti. Mi informava che aveva chiamato Gianni Versace e mi invitava ad andare direttamente a Milano da lui. Qui mi disse che aveva due offerte, la mia e quella di Sergio Bini, ma voleva avvertirmi che nel caso in cui si fossero equivalse, avrebbe privilegiato Bini perché sarebbe stato il suo regalo in vista dell’imminente matrimonio di quest’ultimo. E così fu».A Binda, tuttavia, non mancarono le occasioni per collaborare ancora con i Versace. Ed è di soli due mesi fa la soddisfazione di aver visto rinnovare alla Settimana della Moda di Milano i fasti del Jungle Dress, abito disegnato nel 2000 dalla Tjss, azienda che faceva parte del gruppo Binda, e indossato da Jennifer Lopez in occasione dei Grammy Award. Quell’abito divenne un autentico mito, fasciante, verde smeraldo, stampa giungla. L’evento, rinnovato nello scorso mese di settembre a Milano dalla stessa Jennifer Lopez che è salita in passerella per sfilare con il Jungle Dress rivisitato da Donatella Versace, scatenò a tal punto le ricerche su Google da indurre il colosso informatico a creare proprio in quell’occasione la sezione di Google Immagini.Durante gli anni da assessore, inoltre, all’inizio del nuovo millennio Binda organizzò a Palazzo Cernezzi, sede del Comune di Como, la cena degli stilisti a cui partecipò anche Santo Versace. Lo stilista donò alla città la Statua della Medusa, proveniente dalla collezione d’arte di Gianni Versace e conservata in precedenza a Villa Fontanelle di Moltrasio, poi collocata nel parco di Villa Gallia.Altre interazioni positive furono la magia del balletto del coreografo Béjart, allestito a Villa Erba con costumi disegnati dal grande couturier e lo spettacolo notturno con palloni a Villa Olmo in occasione della mostra-esposizione dei bozzetti dell’archivio Versace.