Domani, un anno fa, la città di Como si svegliava sgomenta, apprendendo subito – poco dopo l’alba – quanto era successo nei pressi della chiesa di San Rocco. Una mattina che è difficile da dimenticare. In poco tempo la piazza ai piedi della Napoleona si riempì di gente, amici di don Roberto, parrocchiani, volontari e anche senza tetto che da lui attendevano la colazione e che si ritrovarono senza un amico. Le urla e i pianti sono ancora presenti nella mente di chi – da debita distanza – guardava le forze di polizia e il magistrato di turno, il pubblico ministero Massimo Astori, effettuare il sopralluogo nel punto in cui avvenne il martirio. Un albero, sotto cui cadde don Roberto, che ancora oggi (e lo è stato per tutto l’anno) è meta di pellegrinaggio. A un anno di distanza la giustizia si ritroverà in Corte d’Assise per decidere la sorte dell’uomo che uccide il prete degli ultimi, quel Ridha Mahmoudi, 53enne tunisino, accusato di omicidio volontario e premeditato. Una contestazione che, se dovesse essere confermata, potrebbe portare all’ergastolo. Il processo si aprirà la prossima settimana, il 23 settembre. Mahmoudi parte anche con una consulenza – fatta su richiesta della Procura – che lo identifica come capace di intendere e di volere al momento in cui avvenne l’omicidio. Delitto che, lo ricordiamo, trovò il movente nel fatto che il tunisino credeva di essere vittima di un maxi complotto – di cui anche don Roberto avrebbe fatto parte – che aveva come fine ultimo l’espulsione dall’Italia. In queste settimane che precedono l’apertura della Corte d’Assise, sono state anche depositate le liste dei testimoni chiamati a parlare in aula. Ci saranno ovviamente gli uomini dei carabinieri e della polizia che operarono subito dopo il delitto (la polizia per le indagini, gli uomini dell’Arma perché ricevettero in caserma Mahmoudi sporco di sangue), i volontari che lavoravano accanto a don Roberto, i testimoni che videro il tunisino allontanarsi da piazza San Rocco, i consulenti tecnici (l’anatomopatologo del Sant’Anna che fece l’autopsia, il genetista e lo psichiatra che ha periziato la mente dell’imputato) e pure gli agenti della penitenziaria che gestirono l’accusato dopo l’arresto per il delitto e prima del suo trasferimento a Monza.
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