Il comasco da tre mesi nel cda della Fondazione CariploIn silenzio, com’è nel suo stile. Ma con risolutezza. Dote che si porta appresso quasi per vocazione da quando fu chiamato a dirigere la Democrazia Cristiana comasca.Enrico Lironi, 69 anni, una laurea in economia e un curriculum troppo lungo per essere riassunto in poche righe, da tre mesi lavora nel consiglio di amministrazione della Fondazione Cariplo con la delega a ricerca e innovazione. È, di fatto, l’erede di Giuseppe Guzzetti nel sancta sanctorum del potere economico lombardo.
Si offende se dico che lei è l’eminenza grigia della provincia di Como?
«No, mi rendo conto anch’io dell’impegno gravoso che ho assunto ma sono tranquillo perché so di poter contare, se necessario, sull’aiuto e sui consigli di un uomo come Giuseppe Guzzetti. Inoltre, ho verificato in effetti in questi pochi mesi quanto solida sia la struttura della Fondazione: ti consente di avere sostegno e di lavorare con serenità».
Nel nuovo cda di Fondazione Cariplo lei si occupa di innovazione.
«Sì, è vero. È un settore che conosco, non parto quindi da zero. La responsabilità è importante, ma le sfide vanno accettate e mi è sempre piaciuto affrontare quelle difficili».
Ha deciso di mantenere l’incarico di presidente di ComoNext-Sviluppo Como.
«Ho lasciato ogni altro impegno tranne quello di Lomazzo. C’è un collegamento stretto che può servire in entrambi i casi».
Che cos’è oggi la Fondazione Cariplo?
«Rappresentiamo una frontiera. Tentiamo di dare forza a tutto quello che fatica ad emergere, alle sperimentazioni. Siamo molto attenti all’innovazione, cerchiamo di scovare aree che non sono comunemente esplorate e che invece hanno bisogno di risorse, anche con margini di rischio. La Fondazione aiuta oggi soprattutto chi ha il coraggio di rischiare con l’obiettivo di trasformare queste sperimentazioni in modelli per il futuro».
È per questo che pensate anche a un cambio di strategia?
«Nel piano 2020 si vedranno bene gli elementi di novità. Non più interventi unidirezionali ma intersettoriali, di collaborazione tra un contesto e l’altro. Nel campo medicale, ad esempio, puntiamo a sostenere non le ricerche avviate ma quelle in àmbiti poco indagati, ai quali nessuno si dedica».
Il suo osservatorio attuale, molto privilegiato, cambia la prospettiva con cui guarda alle cose di casa nostra. Che cosa pensa di Como?
«Credo che la città in questo momento, sia un po’ a corto di idee. Sono stato tra i presentatori di un’ipotesi d’intervento sulla Ticosa che prevedeva la realizzazione di housing sociale e di un parco della creatività. Un progetto che avrebbe potuto beneficiare anche dei fondi emblematici di Fondazione Cariplo. L’idea è stata bocciata ma il polo creativo sarebbe stata una risposta giusta in una città che ha cultura e tradizione nel campo del design, della moda. Sarebbe stato utile anche per le start-up. Credo che si possa parlare di occasione sprecata».
Il Comune ha detto di voler portare in Ticosa gli uffici pubblici. Non la convince come idea?
«Spostare il Comune non ti permette un salto in avanti. Il fatto è che altre città lombarde puntano sulla grande innovazione. Como dovrebbe abbattere le barriere del suo municipalismo, collegarsi all’effervescenza di Milano. Le faccio un esempio: Novara si sta muovendo in questa direzione. Sulle vecchie aree della De Agostini sorgeranno una scuola di moda sostenuta da importanti società quali Gucci e Zegna, ma anche un parco tecnologico».
Perché Como è ferma?
«C’è troppa conflittualità, bisognerebbe avere un tavolo di discussione attorno al quale ragionare in modo serio, guardando a ciò che sarà tra 20 anni e senza l’animosità tipica del conflitto pregiudiziale. È incredibile che il progetto cittadino per il bando emblematico maggiore di Como riguardi ancora il recupero del compendio di Villa Olmo. Non sono ancora stati spesi tutti i soldi di cinque anni fa e ce ne chiedono ancora».
Ma il problema qual è? Gelosie? Incomunicabilità tra istituzioni?
«Non lo so. In una realtà locale i livelli istituzionali sono noti: la Città, la Provincia, la Camera di Commercio, e così via».
Ma?
«Ma sarebbe importante sfruttare tutte le occasioni in cui è possibile ragionare. Mi ha stupito molto che alla festa del Sant’Anna non ci fosse nessuno del Comune capoluogo. Il direttore generale, Fabio Banfi, è stato molto bravo a impostare il suo discorso. Peccato che non tutti abbiano voluto ascoltarlo».
La nuova Camera di Commercio può servire?
«Credo di sì. L’unico pericolo che vedo è il bilanciamento degli stanziamenti. Bisogna avere il coraggio di investire sulle cose importanti, senza guardare agli equilibri territoriali ma puntando tutto sulla qualità dell’innovazione».
Per Como, allora, secondo lei che cosa serve?
«Un cambio di marcia, non c’è dubbio. Non voglio addentrarmi in discorsi politici, sconfinerei in territori che non mi competono. Ma ovunque ci sono grandi potenzialità e grande vivacità. Bisogna osare di più».
Senta, che cosa pensa del possibile governo tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle?
«Tutto dipenderà dalle persone, da chi si metterà in gioco. Se verranno indicati ministri che vogliano davvero farsi carico dei problemi, con ragionevolezza e intrattenendo un rapporto non subalterno con l’Europa, allora l’esperimento potrà funzionare. Al di là della formula politica – ormai siamo abituati a tutto, sottolinea ridendo – contano molto di più la credibilità delle persone e la loro capacità di interpretare ciò che sarà. Non è la gestione del presente che fa la differenza, quanto lo sguardo rivolto al futuro».
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