(ANSA) – SERVIGLIANO (FERMO), 27 GEN – “Fui trafugato dal campo di internamento di Servigliano, nel marzo del 1944, grazie alla signora Caraffa, la moglie del farmacista del paese, che entrò nel campo con una carrozzina vuota e uscì con me dentro”: è uno dei passaggi più toccanti del racconto fatto oggi da Uriel Breit agli studenti dell’Istituto tecnico “Montani” di Fermo, in occasione del Giorno della Memoria. Collegati in videoconferenza, gli studenti hanno potuto conoscere la storia della famiglia Breit, di origine ebraica, che arrivò in Italia dalla Germania per lavoro e poi venne fatta prigioniera nelle Marche durante il dominio nazista in Italia. Uriel all’epoca era poco più che un neonato, ma la storia di ciò che accadde l’ha potuta conoscere grazie ai racconti dei suoi genitori. “Dalla Germania i miei arrivarono in Italia, a Milano, nel 1938, quando in Germania per gli ebrei già si stava facendo pesante la situazione – ha spiegato -. Da Milano poi si spostarono a Ivrea. Poi scattò il primo internamento, a Santa Vittoria in Matenano (un paese vicino a Servigliano) e qui – ha ricordato Uriel – trovammo ospitalità con la famiglia Silenzi”. Ma dopo l’8 settembre del 1943 i coniugi Breit vengono internati a Servigliano: “Arrivarono i carabinieri e presero mia madre, mio padre e me piccolino, mentre si ‘dimenticarono’ di mio fratello Marco che rimase così con la famiglia Silenzi, dove venne accudito e di fatto quasi adottato da Ernestina, la figlia del falegname”. “Noi invece finimmo a Servigliano e quell’internamento era ben diverso da quello vissuto a Santa Vittoria”, ha raccontato ancora Uriela alla videoconferenza, organizzata in collaborazione con la Casa della Memoria di Servigliano. Infine, la doppia fuga dal campo di concentramento: “La prima volta che i miei genitori tentarono di scappare, portarono anche me con loro, fu nell’ottobre del ’43, ma vennero ripresi dopo pochi giorni”, ha raccontato Breit. “La fuga ‘buona’ avvenne il 3 maggio del 1944, quando gli Alleati – ha ricordato ancora l’allora bambino scampato alla deportazione – bombardarono il campo e i detenuti riuscirono a fuggire per le campagne circostanti e trovammo rifugio presso la famiglia Procaccini di Montelparo”. (ANSA).
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