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I frontalieri, il lavoro e le statistiche: perché i numeri non dicono tutta la verità

Quanti sono veramente i frontalieri italiani che lavorano in Ticino? E quanto sta incidendo la crisi pandemica sul mercato del lavoro transfrontaliero? «Domande da un milione di dollari», risponde Moreno Baruffini, ricercatore dell’Istituto di Ricerche Economiche (Ire) dell’Università della Svizzera Italiana, struttura nella quale ricopre anche l’incarico di responsabile dell’Osservatorio delle dinamiche economiche. Ogni tre mesi, nel momento in cui l’Ufficio federale di statistica comunica i dati sui frontalieri, puntuale riesplode in Ticino la polemica politica sui «troppi» italiani che hanno un impiego oltreconfine.In effetti, quei numeri – di cui abbiamo parlato diffusamente sulCorriere della Frontieradella settimana scorsa presentando gli ultimi dati relativi alla composizione sociale e territoriale degli stessi frontalieri – non fotografano in modo coerente e preciso la realtà.«La legge dice che quando perde il lavoro, entro 15 giorni il frontaliere deve comunicarlo alle autorità cantonali. In realtà pochi lo fanno».Il permesso rimane nelle mani della persona licenziata e non viene espunto dalle statistiche. Lo stesso vale per gli interinali, che entrano ed escono, anche per brevi e brevissimi periodi, da fabbriche, uffici e negozi.Il risultato è semplice: i dati trimestrali non indicano i lavoratori frontalieri, ma i possessori di un permesso.«A marzo – dice ancora Baruffini – molti italiani hanno perso il lavoro a causa della pandemia. Ma hanno mantenuto il permesso, e sono stati ripresi in buona parte dopo l’estate. I frontalieri sono sempre stati, e restano tuttora, una manodopera molto flessibile. Se sono espulsi dal processo produttivo non si iscrivono alla disoccupazione svizzera ma alla Naspi italiana. E anche per questo la lettura dei dati statistici è molto difficile».Nelle province di Como e di Varese, i due territori confinanti che contano il maggior numero di frontalieri, «il numero degli iscritti alle liste di disoccupazione è cresciuto. Sarebbe molto interessante capire se a ingrossare le file di questi elenchi siano stati proprio i frontalieri», dice Baruffini.Perché la chiarezza prevalga, e con essa un’analisi più corretta dell’intero sistema, servirebbero almeno due cose, spiega il ricercatore dell’Ire: «La prima, una vera comunicazione tra le autorità ticinesi e italiane che si occupano di mercato del lavoro; la seconda, rivedere il modello di gestione della disoccupazione. Questione grandissime che riguarda i rapporti tra Stati, e quindi obiettivo al quale non ci si avvicina facilmente. Certo è – aggiunge Baruffini – che tuttora non riusciamo ad avere statistiche affidabili che indaghino come dovrebbero la specificità del mercato del lavoro transfrontaliero».La cosa curiosa è che chi prova a fare chiarezza viene fermato. Lo scorso anno un progetto Interreg sulla governance transfrontaliera, presentato da diversi “attori” italiani e svizzeri del sistema di confine, non è stato ammesso. «È una cosa che fa riflettere – dice Baruffini – perché bocciare qualcosa che favorirebbe collaborazione e dialogo tra le parti?».

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