«Il direttore dei lavori e il responsabile del procedimento» del cantiere delle paratie avevano «correttamente individuato la condotta richiesta dalla normativa» per uscire dal pantano in cui si era infilata la città dopo la scoperta del “muro”. Ma accettarono in maniera «supina soluzioni» che «si rivelavano non in linea con la normativa sugli appalti». Certo, lo fecero perché pressati dalla politica, ma questo non basta per a escludere ogni loro possibile responsabilità.Tra le righe delle 44 pagine della sentenza con cui la Corte dei Conti d’appello – modificando il giudizio di primo grado dei giudici contabili della Lombardia – ha deciso di condannare Antonio Viola e Antonio Ferro a risarcire al Comune di Como poco meno di 44mila euro, si annidano molte interessanti valutazioni su quanto accaduto attorno al più grande e controverso cantiere della storia cittadina.Il punto di partenza del ragionamento dei giudici è semplice: «Il progetto originario dell’opera era stato variato in modo sostanziale» già a partire dalla prima perizia di variante, nel gennaio 2010.Se nella stessa perizia «fossero state correttamente individuate le modifiche necessarie per ovviare all’errore progettuale che non aveva considerato la reale conformazione del terreno di fondazione», si sarebbero verificate «le condizioni per la risoluzione del contratto» con l’impresa costruttrice (la Sacaim, ndr), dato che dal quadro economico sarebbe emerso «il superamento del limite del 20%» di rialzo dei costi.Di fronte alla «volontà politica di una revisione sostanziale del progetto» attraverso una variante – le già citate “pressioni” – secondo i giudici d’appello della Corte dei Conti «nè il direttore dei lavori né il responsabile del procedimento» indicarono «al decisore politico i limiti dello ius variandi dell’amministrazione e la possibilità di alternative (quali la risoluzione o il recesso)».Lo fecero, scrivono i giudici, «per non gravare il Comune di ulteriori oneri». Ma in realtà, la risoluzione del contratto con Sacaim sarebbe costata alla Città 384.400 euro (oltre il valore dei materiali utili), mentre il conto del recesso sarebbe stato di 398mila euro, sempre al netto del valore dei materiali utili.
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