È una vicenda con i contorni ancora tutti da chiarire, quella che ha interessato un avvocato comasco – 64 anni – e una sua ex segretaria di 52 anni.Le parti si sono trovate nei giorni scorsi di fronte al giudice delle indagini preliminari di Como, Andrea Giudici, per discutere di due opposizioni all’archiviazione opposte, la prima presentata dal legale contro la dipendente, la seconda al contrario. Braccio di ferro che tra l’altro si trova anche sul tavolo del giudice del lavoro.La dipendente contesta all’avvocato, nei giorni dell’esplosione della pandemia (quindi da marzo del 2020), di averla messa a lavorare da casa riconoscendole appena due ore giornaliere e chiedendo per il resto la cassa integrazione in deroga. In realtà, sostiene la segretaria nella sua denuncia (firmata dall’avvocato Massimo Guarisco), a partire dal 13 marzo 2020, malgrado quanto sostenuto dal datore di lavoro, «l’attività lavorativa sarebbe durata per l’intera giornata», e non per solo due ore. Dall’altra parte, invece, l’avvocato e datore di lavoro avrebbe denunciato una «continua pressione psicologica» da parte della segretaria «nell’esigere il puntuale pagamento dello stipendio».Il pubblico ministero Alessandra Bellù aveva chiesto una doppia archiviazione della vicenda, ritenendo di condurre entrambi le questioni a una controversia lavoristica.Il giudice invece ha deciso di dividere le posizioni, archiviando la denuncia querela sporta dall’avvocato, in quanto ritenuta «palesemente infondata», «disorganica, del tutto priva di contenuto anche solo astrattamente di rilievo penale», rimandando invece gli atti alla Procura per chiedere un supplemento di indagine (di almeno quattro mesi) sulla domanda di cassa integrazione presentata all’Inps e sugli importi eventualmente richiesto oppure indebitamente erogati.L’ipotesi di reato di cui si discute, secondo il gip di Como, sarebbe insomma quella di una sospetta indebita percezione di erogazioni pubbliche «commessa mediante la presentazione di una falsa attestazione o dichiarazione».La difesa della segretaria aveva al riguardo presentato messaggi datati maggio 2020, in cui la donna chiedeva al suo datore di lavoro di sapere se avrebbe dovuto «tornare in ufficio» o se al contrario avrebbe dovuto «continuare con le sette ore di telelavoro».
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