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La lite, le sprangate, l’agguato al bar. Ieri i primi testimoni dell’accusa per il delitto di Franco Mancuso

«Stavano giocando a carte quando da una porta carraia sul retro, che immetteva direttamente sul cortile interno, arrivò un uomo robusto, con un casco integrale in testa e occhiali da sole. Esplose tre o quattro colpi poi scappò, scivolando. E in quel momento i presenti notarono che indossava dei mocassini senza calze». Quegli stessi mocassini che i carabinieri della stazione di Lomazzo, nel corso delle indagini, videro ripresi dalle telecamere di sicurezza del comune di Cadorago, ai piedi del killer che stava raggiungendo in moto il bar “Arcobaleno” di Bulgorello per uccidere Franco Mancuso. Era l’8 agosto del 2008. Il killer venne immortalato alle 17.27 ancora a Cadorago, poi alle 17.29 a Bulgorello. Alle 17.31 si allontanava in direzione di Socco. Mancuso è già a terra, colpito da più colpi di pistola, inutilmente soccorso dal 118. Ieri, in tribunale a Como, si è tenuta la seconda udienza di fronte alla Corte d’Assise, la prima con i testimoni a deporre. Si è partiti dagli uomini delle forze dell’ordine – i carabinieri – che condussero le indagini, poi passate dalla Procura di Como (pm Simone Pizzotti) alla Dda di Milano. «Emerse subito che non era un omicidio come un altro – ha testimoniato l’ex comandante del Nucleo Investigativo – Avvenne davanti a tutti, in pieno giorno, con altri clienti presenti». Già, i clienti. Erano in undici all’interno del bar, senza contare i titolari dell’esercizio. Sette ad un tavolo, dove si trovava Mancuso, «seduto per primo sulla destra appena usciti dalla porta che dava sul cortiletto interno». Con lui altri amici, alcuni incensurati, altri ben noti alle forze di polizia, «calabresi, con trascorsi giudiziari di un certo livello, alcuni già condannati per mafia».

Eppure non fu quella l’unica via intrapresa nel corso delle indagini. Anche perché la vittima, 35 anni, autotrasportatore residente con la famiglia a Caslino al Piano, «era molto litigioso, e beveva spesso». Non mancarono insomma, in quei giorni, segnalazioni di dissidi. Ma una trovava tutti d’accordo nell’essere quella più importante di tutti, tanto che «in paese se ne parlava». Era la lite di fine maggio 2008 con Bartolomeo Iaconis, nato a Giffone, Reggio Calabria, 60 anni fa. Gestiva con la famiglia alcuni bar. E proprio in un suo bar era avvenuto il primo violento litigio con Mancuso. «Avvenne all’orario di chiusura – ha ricordato ieri un inquirente – Mancuso voleva da bere, Iaconis non voleva servirlo. Litigarono e lo buttò fuori dal locale. Mancuso si allontanò, prese una spranga e danneggiò l’auto di Iaconis». Poco tempo dopo i due si ritrovarono di nuovo di fronte, in una carrozzeria. «E litigarono di nuovo in modo violento». Per la Procura, questo sgarro sarebbe alla base dell’omicidio, maturato in un ambiente vicino alla malavita organizzata di stampo calabrese. Iaconis, per l’accusa, sarebbe il mandante. Luciano Rullo, 51enne di Como, l’esecutore materiale. Il bar Arcobaleno, quel giorno, era pieno di gente. «Ma dalle sommarie informazioni raccolte emerse ben poco», hanno raccontato in aula i carabinieri. Come del resto «nessuno denunciò la lite di maggio, e l’auto presa a sprangate». Però Mancuso si sentiva in pericolo, questo almeno ritengono gli inquirenti: «A noi risultava che potesse avere una pistola per difendersi alle minacce – ha testimoniato il vice comandante della stazione di Lomazzo – Facemmo due perquisizioni, trovammo i proiettili ma non la pistola». I sospetti – insomma – c’erano già su possibili coinvolgimenti per l’omicidio del 35enne. Poi, una sera di qualche tempo dopo, la prima svolta: «Eravamo in servizio a Rovellasca nell’ambito di una attività contro lo spaccio – ha ricordato il militare – Una fonte confidenziale molto fidata si avvicinò per riferire notizie sul delitto Mancuso. Ci disse che l’esecutore era stato Rullo, il mandante Iaconis». La Corte d’Assise proseguirà tra quindici giorni.

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