Non nascondere la testa nella sabbia, come gli struzzi, facendo finta di niente, ma nemmeno cadere nella trappola del panico, perché «l’emergenza Ebola esiste, ma non da noi, e nemmeno in Nordamerica, bensì nei Paesi dell’Africa Occidentale. Ed è lì che va affrontata».Angelo Curioni, operatore sanitario di Medici Senza Frontiere, è appena tornato dalle zone dove la malattia è endemica ma ostenta tranquillità. Uno stato d’animo dovuto alla consapevolezza di poter contare su una struttura
di assistenza efficace ed efficiente. Come previsto dai protocolli in questo caso, «tengo sotto controllo la mia temperatura corporea, due anche tre volte al giorno», dice. E se questa dovesse superare la soglia di attenzione di 37,5?«Ho l’istruzione di contattare immediatamente il nostro centro in Belgio, da cui partirebbe l’operazione di recupero: in meno di due ore sarei già ricoverato in una struttura apposita per essere tenuto sotto osservazione».Ma il normale cittadino, che non ha la sua esperienza decennale nell’affrontare situazioni al limite, cosa deve fare?«Le strutture ospedaliere italiane sono istruite per affrontare eventuali casi. Qui da noi è l’ospedale Sacco di Milano a fare da capofila e da riferimento per ogni evenienza».C’è veramente il rischio di contagio nelle nostre zone?«Teniamo presente che le possibilità di contrarre Ebola in Italia, così come nel resto dell’Europa o in Nordamerica, è decisamente bassa», risponde. E riprende precisando: «Pur essendo una malattia letale, la sua diffusione è rallentata dal fatto che il virus non sopravvive a lungo fuori da un organismo ospite. Pensate che anche nelle zone dove è presente in modo endemico, la percentuale dei contagiati è molto bassa, poche persone ogni mille. Eppure si tratta di Paesi dove le condizioni di vita sono al limite, l’igiene è nulla e l’assistenza sanitaria inesistente».Da più parti si paventa una diffusione della malattia attraverso le migliaia di immigrati che arrivano con i barconi sulle nostre coste.«Sierra Leone, Liberia e Guinea, i tre Paesi centro dell’emergenza, sono fisicamente isolati dalle regioni del Maghreb, e da quelli sulle coste meridionali del Mediterraneo. Molto prima di arrivare ai porti da cui partono i barconi, l’eventuale contagiato sarebbe già morto», la sua ammissione. Cruda ma sincera.
Franco Cavalleri
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