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L’infettivologo Grossi: «Impossibile tornare alla vita di prima»

Il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie di Wuhan, città con quasi 12 milioni di abitanti della Cina Centrale, parlano per la prima volta di «polmoniti anomale». Nessuno sa ancora che cosa sta per succedere. Qualcuno lo intuisce una settimana dopo, il 7 gennaio, quando le stesse autorità cinesi confermano di aver identificato un nuovo ceppo di Coronavirus.A quattro mesi di distanza, il mondo non è più lo stesso. Almeno tre milioni di persone sono state contagiate dal virus, i morti sono stati oltre 220mila. La Lombardia, per motivi che ancora devono essere compresi fino in fondo, è stata investita dall’ondata di piena della pandemia come pochi altri territori.Un rapporto della Regione, rivelato dal Corriere della Sera, sostiene che già dal 26 gennaio – vale a dire, un mese prima che a Codogno fosse individuato con certezza il primo paziente affetto da Covid-19 – oltre 540 lombardi avessero i primi sintomi della devastante malattia.Paolo Grossi, professore ordinario di Malattie infettive all’Università dell’Insubria e componente del comitato di scienziati che affianca il governatore e la giunta della Regione, ritorna con la mente a quei giorni.«Non ricordo di aver trattato casi anomali – dice – abbiamo curato sicuramente anche pazienti provenienti dalla Cina e dalla regione dell’Hubei, ma nessuno di loro ci ha fatto sospettare la presenza del nuovo virus». Dal punto di osservazione del professor Grossi, quindi, la circolazione anticipata del Covid-19 non c’è stata. Questo non significa che il virus non fosse già presente in Lombardia prima dell’accertamento del caso di Lodi.Il problema, però, non è sapere con certezza quando è arrivata la malattia, quanto piuttosto come fare a contenerla in vista della fase 2.«In questo momento – dice ancora Grossi – stiamo ricoverando soprattutto persone molto anziane che provengono dalle case di riposo, pazienti che sono ammalati da tempo. Assieme a loro, arriva in ospedale anche qualcuno del personale sanitario delle Rsa. Non sembra, invece, esserci un’infezione attiva e diffusa nella popolazione, anche se di recente ho ricoverato un giovane con una polmonite severa».Che fare, quindi? «Se tutti pensano di poter tornare alla vita precedente, nel giro di due settimane ci ritroviamo in piena epidemia – dice Grossi – Bisogna perciò rispettare le norme di distanziamento e utilizzare le mascherine. Ed è essenziale che si traccino gli spostamenti, oltre ad aumentare i tamponi».

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