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L’inutile “guerra” sui frontalieri che Berna e Roma non vogliono

C’è una “guerra” in atto tra Italia e Svizzera sul ritorno al lavoro dei frontalieri? A una prima, sommaria analisi, sembrerebbe di sì. Lo stesso governo, ad esempio, ha accolto l’altroieri un ordine del giorno presentato dai deputati comaschi, lecchesi e varesini della Lega in cui si chiede all’esecutivo di «intraprendere urgentemente tutte le opportune iniziative nei rapporti con la Confederazione Elvetica, affinché sia garantita la tutela della salute pubblica, in particolare dei nostri concittadini lavoratori frontalieri, e quella economica, anche al fine di non arrecare alcun pregiudizio per il prosieguo dei rapporti di lavoro».Dall’altra parte della frontiera non passa giorno senza che la Lega dei Ticinesi, attraverso soprattutto il direttore del Mattino e deputato federale Lorenzo Quadri, indichi gli stessi frontalieri come gli untori del cantone, negando una verità ormai chiara a tutti gli scienziati d’Europa, ovvero che il virus è circolato (proveniente dalla Cina) molto prima dell’esplosione della pandemia.Una guerra di parole che nasconde il punto vero. Evidenziato nelle discussioni tra esperti ed economisti: se e come, in futuro, l’economia del cantone, dipendente in larga parte dalla presenza dei lavoratori italiani nelle imprese manifatturiere e nelle aziende dei servizi, debba orientarsi in direzioni diverse. L’epidemia ha fatto capire che il Ticino, senza i frontalieri, è come il re della fiaba di Andersen: nudo. Nei giorni più difficili dell’emergenza, quando sempre la Lega dei Ticinesi pretendeva la chiusura totale delle frontiere, il ministro degli Esteri di Berna, Ignazio Cassis, ammetteva senza vergogna di aver chiesto al collega italiano Luigi di Maio di lasciar transitare infermieri e medici frontalieri, anche per evitare il collasso delle strutture sanitarie del cantone.Insomma, come ha ricordato ieri in una diretta Web sui Ticinonews il deputato comasco del Movimento 5 Stelle Giovanni Currò, «il virus ci ha insegnato che non ci sono confini, che siamo lo stesso popolo». Affermazione forse un po’ forte, soprattutto per i palati svizzeri, ma non senza una sua logica.I due territori sono da anni collegati e omogenei. Gli italiani trovano in Ticino lavoro e risorse; i ticinesi trovano in Italia merci a buon mercato e un’infinità di clienti ai quali offrono allettanti pacchetti di gestione dei patrimoni finanziari. Un dare-avere non a somma zero, ma sicuramente vantaggioso per entrambi. Durerà? Difficile dirlo. Certo, i comunicati e le prese di posizione dai toni ultimativi si confermano come la strada sbagliata.L’ultima questione aperta, in ordine di tempo, riguarda i valichi stradali. Quelli aperti sono pochi, e il rientro prevedibile al lavoro di più frontalieri potrebbe causare disagi e code. Il presidente dei sindaci italiani di frontiera, Massimo Mastromarino, si è augurato ieri che «vengano aperti altri valichi minori per accorciare i tempi degli spostamenti». Vedremo se prevarrà il buon senso.

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