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Male parole, il catalogo è questo

Benvenuti all’enfer, nei bassifondi del vocabolario,  nel lato b della parola, nel recinto del turpiloquio che ormai da tempo ha tracimato. Oggi non è più quella di un tempo l’asticella che separa ciò che è volgare da ciò che è da ritenere normale, nella lingua parlata e scritta, ascoltata per strada o in tv, vista scorrere sul web e rimbalzare sui social.  Si cerca di capire il fenomeno, di circoscriverlo. Il compianto linguista Tullio De Mauro preparò una guida per la “Commissione sull’intolleranza, la xenofobia e il razzismo” presieduta dalla presidente della Camera Laura Boldrini, “Parole per ferire”, uscita postuma. Lodevole tentativo di giustizia lessicale, ma più utile come mappa dell’odio sociale contemporaneo che  come effettiva terapia. Oggi parole prima considerate tabù, roventi come bestemmie, da tenere in una teca d’amianto e usare solo in caso di incontrastabile furore, sono entrate nel frasario della comune psicopatologia quotidiana, frequentate abitualmente anche da  chi non è né rozzo per censo o per casta  o collerico d’indole o colpito da particolari ingiustizie. Purtroppo  anche i giovanissimi  rischiano di abusarne come marchi identitari. Rimane la scuola, almeno in questo baluardo e argine che si spera piuttosto efficace contro la totale barbarie. Ma fino a quando? Il linguaggio è un magma che si evolve, si sa. Il  “Corriere della Sera” è appena corso ai ripari con una utile collana per raccontare quanto sia bello e ricco il nostro caro italiano, in un Paese dove  il congiuntivo morente è segno d’impoverimento, di atrofia nei cervelli, di pigrizia mentale endemica. D’altronde, come insegnava già il filosofo Schopenhauer, insultare è sintomo di vita. Il lato b è attraente per definizione. Per astio, acredine, burla o sberleffo, nervosismo, sfogo, isteria, abitudine, o nei casi peggiori per l’insorgere di perniciose sindromi neurologiche, la parolaccia ci designa umani, ci è propria come il grasso ai capelli. Con varie gradazioni, si intende. Solo i morti, forse, non trascendono. La partita l’hanno già giocata Ma c’è  insulto e insulto. Per conoscere a fondo il senso delle male parole, e di quelle che potremmo preferire per risultare  più originali rispetto alla massa, c’è un tascabile edito da Mondadori, lo ha  scritto il comasco che ha pubblicato la grammatica italiana più venduta al mondo, Federico Roncoroni. Si intitola Ingiurie&insulti, Un manuale di pronto impiego, ed è una vasta casistica su quanto di meglio si possa fare per dir male di sé o del prossimo, da “abominevole” a “Zoccola” con tanto di legenda a colori che designa le varie gradazioni di intensità di ogni strale. Cercatene in rete le molte recensioni, per approfondire questa o quella voce, ma appagate la curiosità sfogliando direttamente l’originale. È a tutt’oggi il libro di saggistica più utile e al contempo divertente e  arguto che sia  uscito quest’anno. Dodici euro ottimamente spesi, per un’opera da tenere sul comodino, in borsetta, nella 24 ore, nella tasca dei jeans se non siete bibliofili come l’autore. Il libro evita accuratamente di citare quel repertorio sulla bocca di tutti fatto di parole coprolaliche, scatologiche o di pertinenza sessuale. Non è questione di moralismo, ma di efficienza nell’esprimere i concetti. Se l’epoca è liquida, per non affogare nel liquame del conformismo e nell’atrofia lessicale siamo almeno consapevoli dei tanti, variopinti epiteti che potremmo mantecare al posto della solita minestra riscaldata fatta di scontate trivalità. Il libro completa un ideale trittico su vizi e virtù della lingua lariana e dei suoi utenti, che Federico Roncoroni ci ha regalato dal 2015 conIn principio era la parolaeParole. Un dizionario privato, editi sempre da Mondadori e a cura di Laura Scarpelli.

Lorenzo Morandotti

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