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Omicidio di don Roberto: sequestrato il dossier segreto del tunisino in carcere

Mahmoudi Ridha, tunisino di 53 anni accusato dell’omicidio premeditato ed efferato di don Roberto Malgesini, è stato trasferito in un altro carcere. Le indagini su di lui, intanto, proseguono serrate. Non perché vi siano dubbi – da parte di Procura e squadra Mobile – sull’accaduto. Quanto per meglio dettagliare, punto su punto, ogni elemento. La “ritrattazione” dell’arrestato di fronte al giudice delle indagini preliminare, dopo le ampie ammissioni rese negli uffici della Mobile di fronte al pubblico ministero Massimo Astori, è parsa quasi una «provocazione», per usare le parole del giudice, un modo «evasivo» per «sottrarsi alle domande».Ma proprio per questo, ogni tassello della vicenda viene verificato e riscontrato con precisione assoluta.Anche il telefono cellulare dell’arrestato – ad esempio – è stato affidato a tecnici per essere passato al setaccio. Gli abiti indossati quel giorno sono stati sequestrati, il coltello usato per l’omicidio pure e verrà estratto il Dna. Gli inquirenti hanno sentito i testimoni, che erano emersi fin dal primo giorno ma che erano passati in secondo piano dopo le confessioni spontanee del tunisino. Oggi invece le parole di chi aveva assistito al fatto – riconoscendo anche, con un confronto fotografico, il responsabile – riacquistano un valore assai rilevante. Come acquistano un valore fondamentale le immagini delle telecamere che hanno ripreso il tunisino uscire dal sottopassaggio di piazza San Rocco in un orario compatibile con quanto accaduto a don Roberto, prima delle 7, per poi allontanarsi – sempre ripreso dall’occhio elettronico – a delitto compiuto. La Mobile, inoltre, ha sequestrato nei giorni scorsi e sta ora vagliando un ampio dossier segreto che Mahmoudi Ridha aveva redatto e custodiva tra le sue cose a Sant’Orsola dove dormiva. Biglietti, articoli, inviti a presentarsi di fronte al giudice, date dei processi, pronunciamenti dei magistrati, sentenze, appunti di proprio pugno, nomi e fatti catalogati in una progressione che confermerebbe il movente del delitto. Ovvero la convinzione, da parte dell’indagato, che contro di lui fosse stato ordito un colossale complotto per rimandarlo in Tunisia, con tanto di «certificato medico falso» per una malattia agli occhi che non era per questo ostativa sul ritorno in patria, mentre in precedenza – nel 2015 – il medico legale nominato dal giudice di pace aveva certificato la gravità della malattia e la necessità di rimanere in Italia per ricevere cure adeguate. Un complotto di cui faceva parte, a suo dire, anche don Roberto.

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