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Quando le spie erano pagate con i soldi di Campione. Il Casinò gallina delle uova d’oro

C’era una volta la gallina dalle uova d’oro. Il tavolo verde nel quale i giocatori mettevano e dal quale lo Stato prendeva. A piene mani.Una storia ricca di fascino e di mistero, quella di Campione. Lembo di terra donata da Tolone nel 777 dopo Cristo agli abati di Sant’Ambrogio e poi oggetto di disputa con la Svizzera fino al Congresso di Vienna, che lo rese italiano una volta per tutte.A Campione sorge uno dei quattro templi del gioco d’azzardo autorizzati in deroga al codice penale. Il casinò che, diversamente da Venezia, Sanremo e Saint Vincent, è servito per decenni a foraggiare i fondi neri del ministero dell’Interno.Per 40 anni, fino al 1973, i proventi miliardari della casa da gioco dell’enclave – visti anche le minuscole dimensioni del paese e i ricavi altissimi dei tavoli verdi – restavano soltanto per il 20% al municipio. La fetta più grossa, il restante 80%, veniva girato al Viminale e finiva nella cassaforte del ministro.E qui la storia diventa in parte leggenda. La pubblica amministrazione – dal più piccolo paesello al più grande ministero – deve contabilizzare ogni singolo centesimo della proprie entrate e uscite. Non sono permessi i cosiddetti cespiti fuori bilancio.Con la sola eccezione del ministero dell’Interno e dell’ufficio del capo della Polizia, il funzionario più alto in grado della Repubblica.I famosi “fondi neri” che da Campione finivano a Roma sono serviti, per decenni, a pagare spioni e barbe finte. Qualcuno ha favoleggiato altro, ma le prove non ci sono. Ovviamente. Ed è anche inutile tentare fantasiose ricostruzioni.La giostra dei soldi facili ricavati dalle roulette di Campione si è fermata nel 1973, anno in cui una legge dello Stato ripartì i ricavi della casa da gioco tra il Comune, la Provincia di Como e il ministero dell’Interno, quest’ultimo chiamato a destinare gli stessi ai Comuni disastrati. Per oltre 20 anni, i soldi consegnati alla Provincia – familiarmente definiti “fondi di Campione” – divennero la mammella alla quale riuscirono ad attingere moltissimi paesi lacustri. Scuole, strade e qualche piccola cattedrale nel deserto vennero costruite grazie a questi denari. Bei tempi anche quelli. Durati fino alla metà degli anni ’90 del secolo scorso.Fin quando, cioè, dopo una gestione commissariale seguita a una bufera giudiziaria, il casinò finì in mano a una società partecipata dal Comune, dalle Province nuove e vecchie (prima Lecco, poi addirittura Varese) e dalle Camere di Commercio.Gli anni del declino. Che in modo sorprendente coincidono con la scelta di abbattere la vecchia casa da gioco per costruire la nuova, un imponente e mastodontico edificio progettato dall’archistar ticinese Mario Botta. Il resto è storia recente. E cronaca. La crisi economica, il cambio sfavorevole, la concorrenza dei casinò di Lugano e di Mendrisio, la fine della società di gestione pubblica e il ritorno della casa da gioco in mano a un unico socio, ovvero il municipio.Il Casinò, che è arrivato ad avere utili per 100 miliardi di lire e oltre 650 dipendenti, ha imboccato una discesa molto ripida. Il tentativo di salvataggio è in atto, ma bisogna persino contrastare la richiesta di fallimento formulata dalla Procura di Como. La ricetta è dolorosa e prevede il licenziamento di quasi un terzo dei dipendenti. Gli anni d’oro sono davvero un ricordo.

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