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Quattro scenari possibili per governare insieme il “territorio della paura”

Una ricerca presentata ieri a Bellinzona

(da.c.) Barriere sociali, culturali, politiche, economiche. Ma anche, e nello stesso tempo, «punti di contatto, di mediazione e di comunicazione. Espressioni di “spazi intermedi”». Sono le frontiere. Linee fisiche che separano popoli e nazioni. Talvolta – ma non sempre, fortunatamente – in modo insormontabile.Una di queste frontiere, negli ultimi anni, ha cambiato spesso fisionomia.È quella che divide il Canton Ticino dall’Italia. Una linea che è tornata a farsi solco, soprattutto

in tempi recenti, a causa di recrudescenze identitarie cavalcate da forze politiche neo-conservatrici e da una crisi che non lascia margini. Una crisi, soprattutto, che non aiuta a riflettere sulla condizione di prossimità che caratterizza chi vive da una parte e dall’altra.La frontiera italo-ticinese è l’oggetto di un’analisi condotta da un gruppo di studio eterogeneo promosso dall’associazione Coscienza Svizzera. Una ricerca sul tema sfociata in un interessante libro uscito in questi giorni a cura di Oscar Mazzoleni e Remigio Ratti e presentato ieri in una conferenza stampa convocata a Bellinzona (Vivere e capire le frontiere in Svizzera. Vecchi e nuovi significati nel mondo globale, Armando Dadò editore, pagine 237, euro 25).Uno dei punti di partenza più interessanti del volume è l’idea che il Ticino rappresenti «un’eccezione», una «anomalia» nel contesto elvetico delle regioni di frontiera. Un territorio, scrive Oscar Mazzoleni, caratterizzato «da una doppia frontiera: politica verso Sud e linguistica e geo-morfologica verso Nord». Di fatto, il Ticino è stretto in una “morsa” che ne condiziona irrimediabilmente i comportamenti. È minoranza (linguistica ed economico-sociale) nella Confederazione. Ed è minoranza (culturale) nel rapporto con l’Italia.Anche per questo, l’atteggiamento di fortissima chiusura identitaria si è riversato, negli ultimi 20 anni, in un leghismo dai toni ancora più barricaderi di quello nostrano. Un fenomeno politico che non aiuta in alcun modo a trovare l’uscita possibile verso una normalizzazione dei rapporti tra territori di frontiera.Secondo Remigio Ratti, che al tema della frontiera ha dedicato una parte rilevante della sua attività di ricerca, sono comunque 4 gli scenari che si aprirebbero davanti a chi volesse promuovere la governance del territorio insubrico.Una «territorialità in balia degli eventi», in cui la politica rinuncia a ogni intervento correttivo; una territorialità da “arroccamento”», che di fatto è quanto sta avvenendo ora da una parte e dall’altra (black list fiscali, blocco dei ristorni, limiti di accesso ai lavoratori autonomi e così via); una «territorialità da spazio di “transizione”», caratterizzata da una debole capacità di governare i fenomeni sociali ed economici; e, infine, una «territorialità sistemica trasfrontaliera e intra-metropolitana», l’unica positiva.Il Ticino, è la tesi di Ratti, deve cercare un nuovo equilibrio in spazi macro-regionali che, necessariamente, si aprono a Sud. Così da trasformare la frontiera da “zona grigia” e territorio della paura in opportunità.

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