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«Ricomincio da mio figlio e da un distributore di Giacomo»

«Oggi ha quindici anni ed è la mia luce. Io vivo per lui. Con il fratello di mio marito gestisco un impianto a Monza»«Da dove ripartire? Da mio figlio quindicenne, che è la mia luce, con un caratterino tosto che già assomiglia a quello di Giacomo. E poi da una pompa di benzina a Monza, che gestisco con il fratello di mio marito». Un po’ come faceva con Giacomo Brambilla, quando insieme, partendo da un solo distributore, arrivarono a gestire 9 pompe tra Comasco, Monzese e Milanese. Prima che il mondo, in pochi mesi, crollasse loro addosso. Domenica Marzorati è stata per 18 anni la moglie dell’uomo uccisoda Arrighi. La voglia di lottare non le è mai mancata, anche se adesso «la rabbia, che con l’adrenalina ti faceva andare avanti, ha lasciato il posto al dolore che scava dentro».Alberto Arrighi non andrà in Cassazione. Il caso è chiuso, con una condanna a 30 anni di pena.«Me lo sentivo che si sarebbe fermato qui. Non poteva andare a Roma dopo quello che era stato scritto in Appello a Milano. Per i giudici meritava l’ergastolo. Io non entro nella questione, ma alla fine gli unici a non avere avuto “sconti” siamo stati noi. La nostra pena non cala, aumenta giorno dopo giorno. Giacomo ci manca, e in più c’è il terribile ricordo di quello che è accaduto».Pensa mai alla possibilità che un giorno lontano potrebbe incontrarlo per strada?«Mio figlio mi chiede sempre: “Quanto rimarrà in carcere?”. Non so rispondergli. Io invece non ho mai pensato alla possibilità di poterlo incontrare. È una eventualità troppo lontana nel tempo. Il mio ricordo di lui è quando a Milano, prima della sentenza, parlò guardandomi negli occhi e chiedendo scusa a mio figlio per quanto aveva fatto al padre».La moglie l’ha più rivista?«Una volta in via Vittorio Emanuele a Como, pochi giorni dopo l’omicidio. Lei non mi ha notato. Cosa ho provato? Mi si è gelato il sangue».Ripensa a quanto accaduto?«Tutti i giorni. Ogni tanto rileggo gli articoli di giornale dei primi giorni. L’immagine che fu data di Giacomo non fu quella reale. Si scrisse di tutto, sospetti che non hanno mai portato a nulla. È il rammarico più grosso anche per la famiglia di mio marito: quella rimasta non è l’immagine veritiera».Come ha saputo del delitto?«Quel giorno portai mio figlio a scuola, alle 8. Giacomo non era venuto a casa a fare colazione come faceva sempre. Il telefonino era spento dalla sera prima. Andai al distributore di via Paoli e nessuno aveva sue notizie. Anche il commercialista non sapeva nulla. Quindi andai alla polizia. Io, della storia dei soldi prestati ad Arrighi non sapevo nulla. Per me era solo una persona da cui mio marito si recava perché aveva il porto d’armi e, in una occasione, per allestire un presepe in vetrina. Seduta in Questura notai che attorno a me c’era nervosismo, ma non collegai la cosa con la scomparsa di mio marito. Quando però mi dissero di andare a casa e di aspettare intuii che le cose erano serie».Poi cosa avvenne?«Due agenti vennero da me, accompagnati da uno psicologo, e mi dissero tutto. Il particolare della testa anche loro fecero fatica a riferirmelo».E a suo figlio come lo disse?«Quella mattina sapeva che stavamo cercando il papà perché non si trovava. Andò a scuola nervoso. Quando dalla Questura mi mandarono a casa, dissi a una amica di passare lei a prenderlo una volta finite le lezioni. Poi lo raggiunsi: non sapevo cosa fare, ma non volevo che venisse a sapere la cosa dai giornali o dalle televisioni. Così mi feci coraggio. Il suo pianto, una volta appresa la morte del padre, me lo ricordo ancora oggi. Scappò in camera e si chiuse dentro. Rimase da solo, in silenzio, per un’ora. Poi aprì, mi venne vicino e disse: “Voglio sapere tutto”. Da allora è stato con me in prima linea. Lui è il mio raggio di luce, vivo per lui. Oggi, ad esempio, non sapeva che avrei parlato con lei di Giacomo, ma me l’ha letto negli occhi. Sa che per me, ogni volta, ricordare è una sofferenza».Con i familiari di Giacomo come andò?«Suo padre sapeva che stavamo cercando Giacomo dalla mattina, ma non si preoccupò. Poi un dipendente andò a dirgli cosa era accaduto. Corse da noi, e appena vide me e mio figlio si sentì male».Come sono i rapporti tra di voi?«Ottimi, come sono sempre stati. Questa vicenda, tutto questo dolore, ci hanno uniti ancora di più. Sono i nonni di mio figlio, ogni domenica ci vediamo e stiamo assieme. Sono la nostra famiglia».Come conobbe Giacomo?«Era il parcheggiatore di viale Lecco, dove io portavo l’auto. Fu un colpo di fulmine. Forse era il momento giusto per tutti e due. Mi mandava le rose rosse in negozio tutti i giorni. Parlammo subito di sposarci. Poi arrivò nostro figlio. Siamo stati assieme 18 anni».Lavoravate insieme?«Eravamo arrivati ad avere 9 pompe di benzina: in viale Lecco, in via Pasquale Paoli, a Fino Mornasco, due a Monza, due a Milano, una a Castellanza, una a Cassano Magnago. Tutto sembrava perfetto. In poco tempo però il mondo è crollato addosso alla nostra famiglia. Io gli dicevo sempre: “A costruire serve tanto tempo, ma a far finire tutto basta un attimo”. Così è stato».Ora da dove ripartirà?«Come le ho detto, da mio figlio. E poi da un distributore. Uno di quelli che aveva Giacomo, a Monza, che gestisco con suo fratello. Ci diamo una mano per ricominciare».C’è qualcosa che tutta questa storia non ha rivelato?«Sì, dove sono finiti i soldi di Giacomo. Negli ultimi mesi, per una vertenza con la Shell, non li depositava più in banca. Io so bene quanti erano i soldi di nove pompe di benzina, cifre grandi e in contanti, di cui non c’è più traccia. Sono rimasti solo gli assegni. Ecco, in tutti questi anni di indagini, sappiamo il colpevole, sappiamo il movente, ma nessuno mi ha saputo dire dove quei soldi sono andati a finire».

Mauro Peverelli

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