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«SENZA EXPORT SI MUORE»

(m.d.) «Se un’impresa tessile pensa oggi di poter resistere puntando soltanto sul mercato nazionale è già morta». Più chiaro di così Andrea Luraschi, un recente passato da docente alla facoltà di Economia dell’Università dell’Insubria, un presente da responsabile delle esportazioni nell’azienda di famiglia, non poteva essere. Anche perché ha lasciato la carriera accademica proprio per portare nel mondo le stoffe prodotte dalla Tessitura Serica Luraschi di Lurate Caccivio.«Noi

realizziamo tessuti per abiti da sposa, da sera e da cerimonia – dice Luraschi – e lavoriamo con l’alta sartoria, con i grossisti che poi a loro volta rivendono agli atelier e con l’alta moda per il prêt-à-porter. Siamo una piccola azienda familiare e, come tante altre imprese, abbiamo deciso di puntare gradualmente sui mercati esteri, anche per poter sopperire a quella parte di clienti italiani che creavano solo problemi, perché per esempio non pagavano».E proprio l’Italia è oggi il punto dolente per qualunque imprenditore. «Il mercato nazionale ha toccato il fondo – spiega – e da lì non ci muoviamo: non andiamo nè più giù nè abbiamo cominciato a risalire».Nel dicembre del 2010, nella sua veste di ricercatore universitario dell’Insubria, Luraschi si è occupato del settore tessile, ricostruendo gli ultimi, travagliati decenni attraversati dalla seta in riva al Lario. “L’evoluzione recente del distretto serico comasco: una reinterpretazione” è il titolo della sua analisi.«Negli ultimi vent’anni – ha scritto Luraschi in quella occasione – la situazione è radicalmente mutata. Le formule strategiche e organizzative che avevano assicurato il successo al distretto comasco sono state messe in discussione da profondi cambiamenti esterni». L’elenco è lungo e va dalle tendenze della moda divenute sfavorevoli ai prodotti tradizionali del distretto (meno cravatte, foulard e tessuti stampati) all’accresciuta concorrenza dei produttori asiatici; dalla crescente subalternità delle imprese nei confronti dei loro clienti (sempre più capaci di dettare le condizioni in termini di prezzo, velocità di consegna, dimensione dei lotti e dilazioni nei pagamenti) al mutato quadro internazionale, per esempio per l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che ha spalancato i mercati occidentali ai prodotti cinesi. Tutto ciò, unito a una diffusa incapacità di fare i conti rapidamente con le nuove regole del gioco – anche per la tendenza del distretto comasco di replicare immutata la strategia della “qualità prima di tutto” che in passato aveva assicurato il successo e che ora invece non bastava più – aveva accentuato la crisi della seta lariana. Dal 2008, poi, con l’esplodere della recessione, tutto si è fatto ancora più complicato.«Per le aziende del tessile-abbigliamento – spiega oggi Andrea Luraschi – l’estero è stata una vera e propria àncora di salvezza. Per quanto ci riguarda, la crescita sui mercati internazionali è stata enorme. Prima le vendite all’estero rappresentavano il 10-20% del fatturato della nostra azienda, alla fine di quest’anno raggiungeranno il 50-60% e contiamo di proseguire la crescita anche nel prossimo anno».Ma non è facile, soprattutto per le piccole imprese, guadagnarsi spazi sui mercati internazionali. «Oggi è molto difficile andare all’estero – spiega l’imprenditore – I mercati sono già presidiati da molte altre aziende. Non si può pensare di prendere la valigetta e partire per trovare nuovi clienti. Bisogna allora riuscire a individuare ottimi agenti, rappresentanti e grossisti sui mercati giusti. Ci vogliono mesi, però, per riuscire a inserire i propri prodotti, far conoscere il campionario e far capire ai clienti le proprie peculiarità. Servono abilità, accurata programmazione e anche un pizzico di fortuna». Cina, Giappone, Russia e Medioriente sono i mercati più interessanti. «I Paesi arabi sono molto importanti – sottolinea Luraschi – Hanno un elevato potere d’acquisto e, a mio giudizio, hanno salvato il tessile comasco. Molte imprese italiane del settore, anche grosse e con marchi prestigiosi, hanno commesso un errore strategico: non hanno internazionalizzato per tempo – conclude – Così oggi sono ferme e rischiano di chiudere».

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