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«Vidi due grembiulini alle finestre ma i fratellini non c’erano più»

Due ragazzi di allora ricordano il disastro provocato dal CosiaLa gente di Tavernerio guarda con occhi diversi le drammatiche immagini di Genova e delle Cinque Terre, che tutti abbiamo visto in questi giorni. In quelle tragedie rivive la propria. Quei poveri morti le ricordano i sedici travolti dalla furia del Cosia sessant’anni fa come oggi.Arnaldo Pini, ora 77enne, all’epoca era un ragazzino di appena 17 anni. Da un mese lavorava in Comune e di colpo si trovò catapultato in una situazione eccezionale molto più grande di lui.«Un uomo arrivò

trafelato in municipio – ricorda – È caduta la montagna, disse. Chiamate i vigili del fuoco, la Questura, i carabinieri? Assieme al mio collega, che aveva una decina d’anni più di me – prosegue il racconto – corsi fuori per capire cos’era accaduto. Centocinquanta metri più in là, all’altezza della trattoria “La Pesa”, la strada provinciale non c’era più. Al suo posto un cumulo di detriti alti un metro. Tutt’attorno, uno scenario apocalittico?».Romolo Noseda ha 74 anni. Nei suoi occhi è stampata una scena che non dimenticherà mai. «Il mattino dopo il disastro vidi due grembiulini scolastici appesi alle finestre di una casa di cui era rimasta soltanto la facciata, come nelle quinte di un teatro. Il resto dell’edificio non c’era più e i due fratellini a scuola non sarebbero mai tornati… Capii che erano morti e mi misi a piangere».Pini e Noseda sono cugini. Rievocano assieme quelle ore e le giornate che seguirono. Dopo quell’8 novembre, un giovedì, in paese niente fu più come prima.C’era stato un mese di maltempo e in seguito a tre giorni di pioggia incessante, a monte di Tavernerio, dalla Cascina Poé si staccò una frana che travolse due casolari e ostruì il letto del torrente Cosia, provocando l’effetto di una diga.A monte dello sbarramento si formò rapidamente un lago e, in breve, la pressione dell’acqua sfondò quel precario contenitore naturale. Alle 18.10 l’onda anomala si riversò a valle, travolgendo tutto ciò che incontrava sulla propria strada, distruggendo anche le case. E buon per tutti, scrisserro i cronisti dell’epoca, che molti uomini di ritorno dal lavoro erano ancora in viaggio e che il turno della tessitura Bagliacca iniziava alle 18. Altrimenti, le vittime sarebbero state molte di più. Alcune di queste furono recuperate solo alcuni giorni dopo nel Lago di Como.Il municipio di Tavernerio divenne la centrale operativa di quell’emergenza. «Il telefono squillava in continuazione. Trascorremmo tutta la notte in Comune», rievoca ancora Arnaldo Pini.«Non c’erano fotocellule, non c’era tecnologia. Il buio era rischiarato dai fari di qualche motocicletta tenuta accesa per quello scopo», gli fa eco Romolo Noseda.Entrambi sottolineano la gara di solidarietà che subito scattò. «Non esisteva la Protezione Civile. L’Esercito spedì qui alcuni soldati dalla caserma di Como. Ma tutti in paese si diedero da fare impugnando vanghe e badili. La gente viveva ancora nelle corti, ognuna delle quali ospitava un certo numero di famiglie, fino a una ventina. E questo rendeva uniti anche in tempi normali. Le panchine, nei cortili, creavano una socializzazione spontanea e naturale. Quando veniva l’inverno ci si ritrovava nelle stalle. Ogni bambino che nasceva era gioia comune; ogni morte dolore condiviso».Questa stessa solidarietà fu evidente anche nelle offerte di tanti. Il preciso elenco stilato dal Comune ne evidenzia numerose anche di piccola entità, comunque significative.Di lì a una settimana, in quello stesso mese di novembre, ci fu il disastro del Polesine e Tavernerio dovette arrangiarsi. Le case, però, furono ricostruite in poco tempo.Le vittime dell’alluvione furono allineate nell’edificio della Pontificia Opera di Assistenza, l’attuale Villa Santa Maria. Un monumento le ricorda nel cimitero del paese. I loro funerali furono seguiti da una folla immensa.

Marco Guggiari

Redazione

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