Categoria: Opinioni & Commenti

  • Basta toni bellici, non siamo in guerra

    Basta toni bellici, non siamo in guerra

    di Mario Guidotti

    Questa pandemia è stata tale anche sul versante della comunicazione. Ricordate il termine infodemia? Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non verificate. Siamo stati martellati da frasi storiche, di incoraggiamento, di consolazione. Vi ricordate: “Andrà tutto bene”? “Ne usciremo migliori”? Ma anche “è una guerra”.

    Biden ha rilanciato indirettamente questo concetto ricordando un dato impressionante: negli Stati Uniti il Covid ha fatto più morti delle ultime guerre insieme. Mah, forse più corretto dire che molti sono morti “con” il Covid e non solo “per” il Covid. Anziani fragili con pluripatologia, malati neoplastici, bronchitici cronici, tra questi abbiamo contato non tutti ma i maggiori defunti, anche se il dato non alleggerisce il carico di dolore né il lutto. Ma, a parte la mimetica del Generale Figliuolo (perché la indossa?), non è una guerra.

    Non solo per la mancata repressione dell’evasione delle norme anti-contagio. Amici della forza pubblica raccontano di sberleffi, alzate di spalle e marameo all’ingiunzione di non assembrarsi: voi l’avreste visto fare in guerra? Ma vorremmo stare, per rimanere sulla similitudine bellica, sull’argomento vaccini. Bene, in guerra, e sono dati storici oltre che racconti di famiglia, la prima (o seconda) azione di un governo, democratico e non che sia, è quella di requisire industrie e riconvertirle alle necessità appunto della guerra: armi, munizioni, navi, carri armati, ma anche vestiario per i soldati, medicine. Appunto farmaci.

    Non vi sareste aspettati che se fosse una guerra (e i morti, per parole del Presidente Usa, sono stati anche di più) i governi nazionali ed anche sovranazionali avrebbero requisito o comunque commissariato le industrie farmaceutiche inducendole a produrre vaccini e farmaci anti-Covid? Nei modi, costi e volumi che servivano. Cosa che attualmente abbiamo visto mancare totalmente. Quella che si è invece palesata è stata una totale libertà di mercato, legittima badate bene, anzi democraticissima, sia nei modi sia nelle tariffe. Se invece guerra fosse, la Nato, per fare un esempio, proteggerebbe chi ne fa parte. Non esisterebbe che i vaccini vadano a chi li fa prima, o a chi li compra rapidamente o a chi li paga di più. Perché le armi e le munizioni sarebbero appunto i vaccini.

    Aggiungiamo, per stare al caso Como e provincia: i punti vaccinali sarebbero a costo zero per la comunità, non a prezzi di mercato.

    Continuiamo quindi con gli attuali comportamenti nazionali, anzi campanilistici (vedi le decine di sistemi sanitari regionali del nostro Paese, dove c’è chi ha vaccinato il 31% e chi il 14%, nota bene, solo di alcuni gruppi), ma per favore due cose. Prima: aboliamo o rendiamo più leggeri, e meno costosi, organismi come appunto Nato, Onu, Oms e compagnia inutile. Seconda: dateci una comunicazione più essenziale, meno ampollosa e retorica, nonché carica di metafore che non solo non incoraggia ma, visti i risultati, innervosisce anche.

  • Anche con il Covid resta una presa in giro

    Anche con il Covid resta una presa in giro

    di Giorgio Civati

    Come ricorderanno i lettori, la questione soldi per noi è fondamentale. E lo è anche in questi disgraziati tempi; intendiamoci, il Covid presenta emergenze e problematiche soprattutto legate alla salute ma, al di là di questi aspetti, tocca da vicino e pesantemente anche l’economia, il lavoro, entrate  e uscite di famiglie e aziende e anche dello Stato.

    Questione di soldi, dunque, non per banale voglia di ricchezza ma per semplice sopravvivenza, almeno in molti casi. E, quindi, sono saltati molti “paletti”, tanti criteri, quasi tutti i conti. Per questo sono stati messi in campo ristori e contributi, spostamenti di scadenze fiscali, aiuti e agevolazioni.

    Ultima in questa lista l’ipotesi di cancellare qualche milione di cartelle esattoriali. Ben 61 milioni per il periodo 2000-2015 fino a 5mila euro ciascuna, per un controvalore totale di circa 1 miliardo di euro. Forse non una enormità, ma certamente una ingiustizia, a nostro avviso. Di più, una beffa.

    Comprendiamo che in emergenza le regole consuete non possano essere applicate, che questo malandato fisco italico potrebbe addirittura spendere più del ricavato da una applicazione precisa e rigida delle regole, e anche che tra questi contribuenti ci siano molti in affanno, anche e soprattutto per il Covid.

    Va detto che “giacciono” nei meandri dell’Agenzia delle Entrate qualcosa come 137 milioni di pratiche per tasse e multe non pagate e snellire l’arretrato forse potrebbe permettere di essere più attivi sul resto. Ci sentiamo di aggiungere che, in più, cifre tutto sommato modeste dovrebbero riguardare non i grandi evasori ma gente qualunque, e quindi gente cui si potrebbe anche fare uno sconto. E, però, non possiamo non pensare agli altri: alla gente qualunque che le tasse le ha pagate, ad artigiani, piccoli imprenditori e commercianti che i versamenti li hanno rispettati, magari con fatica. A quelli regolari, che di fronte alla cancellazione delle cartelle esattoriali citata, potrebbero sentirsi presi in giro. E non è una bella sensazione.

    In tema di fisco, si tratta anche di psicologia. Chi paga vorrebbe farlo in cambio di servizi decenti, e già qui c’è un problema. Inoltre chi paga vorrebbe anche che lo facessero pure gli altri, il vicino di casa o quello del negozio di fronte. Per equità, correttezza, giustizia sociale. Far ricorso a una “rottamazione” in campo fiscale invece va esattamente nella direzione opposta: crea i presupposti per non far pagare chi l’ha sempre fatto e autorizza un comportamento comunque sbagliato, ufficializza un andazzo alla lunga pesantissimo.

    Se nessuno è convinto che “pagare le tasse è una cosa bellissima”, come disse un ministro delle Finanze qualche decennio fa, andrebbe fatto perché giusto, perché lo fanno tutti, perché evadere è comunque perseguito. E invece pare proprio di no. Un condono – perché di questo si tratta – in tema fiscale ma anche urbanistico o altro fa calare il senso dello Stato, del bene pubblico, e visto che di questi sentimenti noi italiani siamo quasi tutti carenti, forse sarebbe meglio cercare altre strade per aiutare i contribuenti poveri e malmessi in ritardo con le loro tasse.

  • Basta con il pianto greco, vaccinate!

    Basta con il pianto greco, vaccinate!

    di Adria Bartolich

    È iniziata la campagna di vaccinazione che tra i soggetti prioritari include giustamente  il personale della scuola, considerato tra quelli  a rischio per numero di contatti, tipo ed  età media.

    Il vaccino utilizzato è AstraZeneca che, per garantire la massima copertura, deve essere iniettato in due fasi diverse.

    Centinaia di docenti si sono perciò recati a farsi inoculare la prima dose. Con grande sollievo, ovviamente. Dopo un anno di Covid, contagi, chiusure alternate e classi in quarantena, l’idea di potere riprendere la vita normale alletta tutti. Gli effetti collaterali sono mediamente limitati e soggettivi, uno o due giorni  di febbre al massimo, dolori agli arti e senso di spossatezza.

    A pochi giorni  dell’inizio delle vaccinazioni si sono verificati dei decessi  dopo la somministrazione del vaccino. Com’è ovvio sono iniziate le verifiche per capire se le morti siano naturali, oppure connesse a particolari patologie o fattori che il  vaccino attiva  o aggrava, o addirittura dovute direttamente a esso.

    Vero che la necessità di provvedere celermente alla vaccinazione ha ridotto i tempi usuali necessari per la sperimentazione, però mai prima d’ora sulla produzione di un vaccino sono stati investiti tanti cervelli, soldi ed energie. Tutti i vaccini hanno dei possibili effetti collaterali: anche quelli più sperimentati non li escludono, li riducono.

    A distanza di un anno dall’inizio del Covid, in Lombardia viaggiamo su migliaia di contagi al giorno, oltre 150 ricoveri di cui una quindicina in terapia intensiva e  un’ottantina di decessi quotidiani. A fronte di tutto ciò, certo è necessario effettuare tutti gli accertamenti per potere migliorare e affinare il farmaco, ma basta confrontare i numeri per capire quanto contino l’isteria e l’allarmismo nella decisione: a fronte di circa 17 milioni di vaccinazioni in tutta Europa, i casi di decessi in possibile (non certa!) correlazione con il vaccino sarebbero 37 , tra trombosi ed embolie polmonari, con un’incidenza inferiore addirittura a quella che si registra nella popolazione non vaccinata.

    La somministrazione del farmaco è stata sospesa per accertamenti in mezza Europa, ma anche altri vaccini hanno avuto i loro problemi. Perciò  abbiamo smesso di vaccinare nonostante qui si sia partiti tardi, la Lombardia abbia  quasi 100 decessi al giorno per Covid, si manifesti per riaprire comunque le scuole e gli psicologi, con lo stesso obiettivo, firmino petizioni segnalando disagi tra i ragazzi costretti a stare lontani dalla vita scolastica.

    Aggiungiamo che gli operatori sanitari hanno saputo della sospensione di AstraZeneca prima dalla stampa che da canali interni e ci facciamo il quadro esatto della situazione: un manicomio.

    Stiamo scherzando?

    Basta col pianto greco. Vaccinate!

  • Alberto e il silenzio che diventa prigione

    Alberto e il silenzio che diventa prigione

    di Agostino Clerici

    Mentre il nuovo governo sta muovendo i primi passi alle prese con i problemi della gestione della pandemia e della campagna di vaccinazione della popolazione, problemi lasciati in eredità dal precedente esecutivo, domenica, sfogliando le pagine del “Corriere della Sera”, mi sono lasciato commuovere da una storia, la storia di Alberto. L’anno passato insieme al Covid ha disciolto la nostra emotività e ci ha resi più disponibili ad ascoltare storie di umanità varia, contrassegnate da finali ora di morte ora di vita.Apparentemente la storia di Alberto non ha nulla da spartire con il Covid. È una storia cominciata 88 anni fa, di cui ben 42 passati in un manicomio.

    Naturalmente non si può riassumere qui in poche righe la sua storia e la sua vicenda umana. Tutte le volte che cerchiamo di trasformare una vita di carne in un racconto di parole perdiamo per strada la sua essenza anche se abbiamo il vantaggio di poterla in qualche modo comunicare, rendendola più universale di quanto non sia nell’unicità della vita vissuta.

    Orfano di padre a 5 anni, mandato in collegio dalla madre, morta ben presto anche lei, Alberto finisce quando ha solo 15 anni in psichiatria. I suoi silenzi, dovuti molto probabilmente ad una educazione repressiva ricevuta, vengono scambiati per una malattia. E da lì comincia la sua lunga e dolorosa disavventura in manicomio. «Nel mio collegio – ricorda Alberto – le suore erano cattive, non ci trattavano bene, spesso ci picchiavano. Insegnavano a stare zitti e obbedire senza discutere. In collegio era obbligatorio il silenzio, se parlavi eri punito. Tutti sembravano volere solo una cosa quando ero bambino: che non parlassi. E io obbedivo, non parlavo».

    È fin troppo facile per noi oggi giudicare negativamente questo comportamento nei confronti di un bambino che aveva solo bisogno di un aiuto in più. Alberto si limita a ricordarlo come un brutto passato che ha segnato un lungo tratto della sua vita. A me colpisce la pacatezza di questo racconto che riesce a nascondere chissà dove anche la comprensibile rabbia.

    Quando nel 1990 – l’anno dei mondiali di calcio – gli dissero che sarebbe uscito dal manicomio, Alberto confessa: «Non sapevo cosa ci fosse fuori, in fondo stavo bene lì, tutti mi volevano bene. Quasi mi dispiaceva uscire». E ricorda che nel quartiere ci fu una rivolta perché la gente aveva paura di quelli che uscivano dal manicomio e venivano ad abitare vicino alle loro case.

    Fin qui la storia di Alberto. E chissà quante altre simili alla sua sono rimaste nel segreto o non hanno avuto uno sbocco di serenità come sembra abbia avuto la storia di Alberto. Che ha forse qualcosa da insegnare anche a noi, uomini e donne che quasi un anno fa senza saperlo siamo entrati nel tunnel della pandemia. Le televisioni e i giornali parlano e ne hanno fatto un unico grande argomento. Gli esperti dibattono e litigano. Ma forse sono tanti quelli che restano come bimbi silenziosi di fronte all’isolamento e alla paura. C’è bisogno di luoghi in cui sia possibile imparare a parlare con gli altri. C’è bisogno di persone che siano disposte ad ascoltare. Perché il silenzio non diventi una prigione.

  • Chiedere scusa, un gesto ormai dimenticato

    Chiedere scusa, un gesto ormai dimenticato

    di Giorgio Civati

    Chiedere scusa è un gesto evidentemente ormai caduto in disuso. Prendiamo la storiaccia della settimana di zona rossa in Lombardia: chiusura immotivata, a quanto è emerso, per errori e svarioni che ancora oggi, sette giorni dopo il cambio di rotta, non si è capito da chi siano stati commessi.

    Un fatto da brividi sapere che la nostra salute, l’economia, addirittura per certi versi le nostre intere vite sono in balìa degli eventi in questo modo. Nelle mani di chi, magari proprio oggi, deciderà (forse) di passarci al “giallo”. Sulla faccenda però qualche altra riflessione può essere opportuna.

    Tra Milano e Roma è infatti tutto un susseguirsi di accuse, polemiche, guerriglia politica e istituzionale: la giunta regionale lombarda contro il governo, il ministro contro il governatore, l’Istituto superiore di sanità accusato di essere organo politico anziché scientifico e via di questo passo. Premesso che tutto questo caos genera soltanto altro caos, aspettiamo ovviamente di capire con certezza se e chi ha sbagliato. Intanto, però, siamo convinti che dal governatore lombardo Fontana al ministro della Salute Speranza, dal premier Conte – vabbè, ha altro da fare in questi giorni, la sua poltrona traballa e lo vediamo seriamente preoccupato, chissà se per l’Italia o per se stesso – a qualunque altra carica istituzionale locale e nazionale un po’ di attenzione ai lombardi è dovuta. Smettere un attimo di accapigliarsi e chiedere scusa, dunque, sarebbe un bel gesto. Scusarsi con noi gente qualunque, con i negozianti e i ristoratori e i baristi ma anche i benzinai, i tassisti, gli operai e gli imprenditori, insomma con la Lombardia intera.

    Non che una settimana in più o in meno di chiusura abbia potuto fare veramente la differenza, la situazione era pesantissima prima e lo sarebbe stata anche con quei sette giorni di zona arancione anziché rossa. Però qualcuno ha sbagliato, evidentemente, e quindi almeno un pensiero a quanti hanno subito ci stava. Ci voleva. Forse scusarsi poteva apparire ai nostri politici e amministratori una ammissione di colpa. O forse non ci hanno nemmeno pensato, presi da beghe, litigi, attacchi e rivendicazioni di partito, di parte, di schieramento. Tutto letto in chiave politica: il governo è di centrosinistra e la Lombardia di centrodestra?

    Ovvio, per loro, che vi sia guerra tra fazioni e schieramenti. Meno per i cittadini, perché un’intera regione, la “locomotiva d’Italia” come veniva definita un tempo, non dovrebbe essere trattata da preda, ostaggio, bottino di guerra di questo o quel partito, di questo o quel governo. Se dunque spesso la burocrazia e le istituzioni ci trattano da sudditi e non da cittadini, questa volta siamo stati invece bellamente ignorati. Quelli che ci hanno rimesso siamo stati noi lombardi e nessuno che abbia speso una parola almeno di conforto e di comprensione. Intanto la gente soffre, si dispera, fallisce, troppo spesso addirittura muore. Ma questo nei palazzi della politica forse non si vede a sufficienza.

  • Bellagio, una meta da Nobel

    Bellagio, una meta da Nobel

    di Lorenzo Morandotti

    La poetessa americana Louise Glück, recente vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura (i suoi versi in traduzione italiana sono pubblicati dal Saggiatore), è stata intervistata da Luca Mastrantonio sull’ultimo numero di Sette, il settimanale del Corriere della Sera.

    Un ampio servizio in cui la scrittrice, nata nel 1943 a New York da una famiglia di immigrati ebrei ungheresi,  parla di sé e del suo “mestiere” di autrice in versi, ma anche della situazione del mondo e  getta semi di speranza per guardare oltre la crisi.

    L’articolo si è meritato giustamente il ruolo di cover story del periodico edito da Rcs.

    Non è mancata una domanda sul nostro Paese nell’intervista Louise Glück: «L’arte ci salverà dalla catastrofe della pandemia» che ora si può leggere anche sul sito del quotidiano di via Solferino.

    «È mai stata in Italia?»  chiede a Louise Glück l’autore dell’articolo.

    La risposta: «Un paio di volte. Prima dei miei 30 anni, a Bellagio, alla fondazione Rockefeller. Poi ho passato una settimana a Todi, da amici».

    «Bellagio». Una parola, una chiave che evoca destini, apre mondi nell’immaginario e non solo legati a questo nostro territorio visto che anche per gli americani, complice Las Vegas e l’omonimo grand hotel fondato da Steve Wynn, Bellagio bussa alla  memoria della fantasia  cinematografica (vedi il film Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco). Senza contare che Bellagio è ormai un brand: si chiama così anche  un giradischi costosissimo.

    Già il presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, quando visitò la “perla del Lario” l’anno prima della sua tragica e ancora misteriosa morte, ebbe parole entusiaste per il nostro territorio   e per la località che unisce idealmente i rami comasco e lecchese del Lario.  La fondazione Rockefeller in particolare è un punto di riferimento per la cultura  letteraria e non solo. Giusto dieci anni or sono vi ebbe luogo  il convegno del Pen Club presieduto da Sebastiano Grasso del Corriere della Sera sugli scrittori perseguitati.

    Il sodalizio riunisce poeti, narratori e saggisti dei cinque continenti. Il summit di Bellagio  ospitò tra gli altri interventi di Visar Zhiti (Albania), del poeta milanese Maurizio Cucchi, dello scrittore e giornalista Mimmo Càndito e di Fawzia Assad (Egitto), presentata da Franca Tiberto (allora presidente del Pen Svizzera).  Intervennero anche  Julia Dobrovolskaja (Russia), Grigorij Pas’ko (Russia) e Andrea Riscassi  per il nostro Paese.

    Un appuntamento importante per il Pen che alla Rockefeller celebrò  i cinquant’anni del comitato “Writers in prison”: riflettori accesi sullo scrittore che è testimone spesso scomodo e controcorrente, antisistema, portatore di un punto di vista non convenzionale  e come tale passibile purtroppo ancora oggi di persecuzioni intollerabili. Toccante  – lo ricordo perché allora ero presente alla Rockefeller come cronista del Corriere di Como  –  fu in quel consesso   la testimonianza del celebre fotografo di Bagheria  Ferdinando Scianna  (il cui nome è legato anche allo scrittore Leonardo Sciascia di cui celebriamo il centenario della nascita) a proposito di quest’epoca ammalata di voyeurismo mediatico. «Non tutte le immagini si possono pubblicare – dichiarò al nostro giornale  – non si può trasformare in fotografia ogni pulsione umana, occorrono equilibrio e decenza. Ce lo ha insegnato Robert Capa che si rifiutò alla fine della guerra di fotografare i campi di sterminio».

  • Accidia, tra i peggiori nemici del cervello

    Accidia, tra i peggiori nemici del cervello

    di Mario Guidotti

    Viviamo un momento sospeso, giorni uguali, settimane piatte, mesi che si ripetono in attesa di tornare alle nostre vite. Tutto lento a passare ma di colpo ci troviamo proiettati in avanti. Qualcuno ha detto che il tempo della nostra vita scorre come un rotolo di carta: lento all’inizio e molto veloce verso la fine. Più di un briciolo di verità c’è.

    Tutti ricordiamo infatti come lentissimo il tempo della nostra gioventù: pomeriggi interminabili, estati eterne, vacanze che non arrivavano e poi non finivano mai, periodo natalizio lontanissimo. Ora, nella stagione autunnale ed anche invernale della nostra vita in un attimo è sera (Copyright Enzo Biagi), sembra di essere sempre allo stesso giorno della settimana tanto queste passano in fretta e in un secondo è già Natale.

    È evidente che il tempo è lo stesso, ma cambia profondamente la percezione dello stesso. Si tratta di un fenomeno noto in neurobiologia, legato alla fase evolutiva (ma soprattutto involutiva) del nostro cervello e in particolare alle nostre attività. Infatti, finché noi abbiamo una forte progettualità (anno scolastico, obiettivi sportivi, programmi di vacanze, di crescita, ma anche sentimentali, comunque di sviluppo di un’idea o passione) il tempo è lungo e lento a passare.

    Quando la nostra vita si fa invece ripetitiva, con tutte le giornate uguali, con una certa fissità di azioni e di persone che ci circondano, ecco che il tempo passa veloce. Il segreto, si fa per dire, sta nell’attesa, appunto nella pianificazione della nostra vita. Se noi aspettiamo qualcosa con bramosia ecco che “non arriva mai” e il tempo ci sembra dilatato. Se invece viviamo in maniera ripetitiva le nostre giornate il tempo vola.

    Se vogliamo quindi metaforicamente “fermare il tempo”, ma anche “afferrare il tempo” dobbiamo tornare ragazzi, quando c’era sempre qualcosa da aspettare. Gli esami, il compito in classe (oggi si  chiama verifica), la fine dell’anno scolastico, il derby a San Siro, la finale di Coppa dei Campioni (oggi si dice Champions), ma anche la telefonata della biondina del terzo banco che non ti filava mai. Mah, direte, che cosa c’è da aspettare adesso che siamo grandi, per non dire attempati? Stesso lavoro, stesse persone, stesso ambiente, stessa spiaggia stesso mare appunto. In realtà la ripetitività ce la creiamo noi. Perché è protettiva, perché in fondo siamo pigri e l’accidia è tra i peggiori nemici del nostro cervello.

    Facciamo sempre la strada più breve, indossiamo il capo più comodo, parcheggiamo più vicino possibile (anche se è in seconda fila), diamo la risposta più comoda e veloce, svicoliamo il problema, banalizziamo, rimandiamo, non affrontiamo, diamo del lungo, deroghiamo, cincischiamo, insomma, siamo pigri. Salvo poi lamentarci della ripetitività della nostra esistenza, ma anche della rapidità del passaggio del tempo. Quindi sta a noi afferrare il tempo riempiendolo di programmi, progetti, iniziative, obiettivi sì, anche in questo momento così difficile. Passerà comunque, ma potremo dire di non averlo lasciato vuoto.

  • Addio anno orribile, adesso tocca a noi

    Addio anno orribile, adesso tocca a noi

    di Lorenzo Morandotti

    Fra poche ore va in archivio l’annus horribilis della pandemia. Ne inizia  uno peggiore (dove però si ricorderanno, tramite i relativi centenari, maestri nel racconto   dell’animo umano come Dante, Dostoevski, Flaubert)? Oppure vedremo, come predica la frequente metafora di questi giorni di prime vaccinazioni, la luce in fondo al tunnel? Dipende come sempre in gran parte  da noi: dal comportamento quotidiano in primis e  dalle scelte, dall’atteggiamento che assumeremo nel medio e lungo periodo.

    Posto che il vaccino contro ignoranza ed egoismo, ossia l’amore,  per quanto più contagioso del morbo  non si inietta a comando. Anche se questa orribile esperienza  ancora non  finita  ha tolto a molti la voglia di guardare al di là del recinto dei giorni più prossimi, non aspettiamoci  deus ex machina risolutivi, in un Paese che di assistenzialismo già vive troppo, ma la paura irrazionale è altrettanto nociva della speranza immotivata: «nec spe nec metu», scegliamo quindi il motto di  Isabella d’Este che piaceva anche al poeta  Ezra Pound e al regista Luca Ronconi. Cioè: bando alle facili speranze,  ma parimenti  porte chiuse al pessimismo nel timore di chissà quale punizione.   Sul fronte della cultura la pandemia traccia un solco che per molti operatori sarà impossibile rimarginare, non solo sul fronte economico  ma anche nelle abitudini.

    Chi ha più voglia di andare al cinema (il divano è tanto comodo…) o  a teatro o al museo, mentre centinaia di persone ci lasciano per sempre? Eppure quei luoghi conservano una parte non irrisoria della nostra identità attraverso memorie che è doveroso tramandare intatte, anche se costa fatica e denari. A Pompei si è celebrata giustamente la scoperta di una tavola calda conservata sotto l’eruzione con ancora i resti del cibo nei recipienti (ha  ragione  chi aborre  termini come “street food”). Scoperta che dovrebbe interessare anche i comaschi,  visto che sotto lapilli e gas velenosi del Vesuvio incontrò la morte l’erudito Plinio il Vecchio. Il 2021 sarà decisivo per strutturare il bimillenario dell’antenato comasco. La scoperta pompeiana farà tornare la passione per l’archeologia negli italiani, una volta riaperti i cancelli di siti e musei?

    C’è da sperarlo ma non basta dormire sugli allori: la retorica del “Paese più bello del mondo”, della mitica meta del grand tour di goethiana memoria dove «fioriscono i limoni» da sola non basta a far rialzare da terra dopo tanti disastri, se non si lavorerà sodo e tutti insieme. C’è tantissimo  da fare. Buon anno nuovo a tutte e a tutti.

  • Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    di Adria Bartolich

    La scuola sta sopportando un grande disagio, certo non è sola. Molte attività subiscono lo stesso altalenante andirivieni di decisioni, contagi, problemi organizzativi, e altri ancora anche le pesanti ricadute economiche delle chiusure a causa dell’epidemia in corso.

    Sulla scuola, però, ci sono un’attenzione e uno stato di emotività che su altre istituzioni o attività non esistono. Sembra che la scuola sia diventata un catalizzatore di proiezioni ed emozioni positive o negative.

    Se a marzo, durante il primo lockdown, la speranza di uscirne presto aveva portato le persone a rappresentare l’attesa di una veloce inversione di rotta con una serie di riti scaramantici, cartelli e canzoni su finestre e balconi all’insegna dell’“andrà tutto bene”, le chiusure più recenti, alquanto incostanti, in concomitanza con la curva dei contagi che fatica a scendere, hanno visto una sorta di disincanto. Non siamo sicuri che “andrà tutto bene”, né sappiamo quando tutto ciò potrà finire.

    C’è uno stato d’ansia generalizzato che si percepisce anche senza bisogno di particolari rilevazioni statistiche. A marzo, quando scadrà la proroga ai licenziamenti, molte persone probabilmente perderanno il posto di lavoro artificiosamente mantenuto operativo pur in presenza di crolli della domanda e degli incassi.

    Aperture e chiusure danno la misura di quanto sia difficile contenere e tenere sotto controllo l’epidemia, cui si aggiunge la non chiarezza sulla reale portata dei contagi, ma anche un incomprensibile ritardo nell’adozione di misure radicali volte a riportare la situazione almeno a una parvenza di normalità.

    Tutto il nostro assetto istituzionale è sotto stress, riforme pensate e adottate sotto l’impulso del momento hanno mostrato tutti i loro limiti.

    Confusione, sovrapposizione delle competenze ma anche tagli orizzontali privi di senso e irrazionali, nella scuola come nella sanità, e modus operandi datati impediscono, soprattutto ora, un efficace funzionamento di molte strutture, che visioni politiche orientate alle necessità momentanee del consenso accentuano.

    Mancano insegnanti e viene presentata la chiusura del concorso entro il 2021 come un successo. Sul piano didattico si è ormai sperimentato di tutto: didattica in presenza, a distanza, mista, sincrona e asincrona; sforamenti di ore e anche dal profilo professionale.

    Il tutto senza che si sia pensato di mettere mano a una revisione complessiva e organica del contratto che ormai sembra quello dei lavoratori di Cartagine.

    Forse confidando che il virus duri poco. E speriamo che sia così. Ma se andasse per le lunghe?

  • Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    di Adria Bartolich

    La scuola sta sopportando un grande disagio, certo non è sola. Molte attività subiscono lo stesso altalenante andirivieni di decisioni, contagi, problemi organizzativi, e altri ancora anche le pesanti ricadute economiche delle chiusure a causa dell’epidemia in corso.

    Sulla scuola, però, ci sono un’attenzione e uno stato di emotività che su altre istituzioni o attività non esistono. Sembra che la scuola sia diventata un catalizzatore di proiezioni ed emozioni positive o negative.

    Se a marzo, durante il primo lockdown, la speranza di uscirne presto aveva portato le persone a rappresentare l’attesa di una veloce inversione di rotta con una serie di riti scaramantici, cartelli e canzoni su finestre e balconi all’insegna dell’“andrà tutto bene”, le chiusure più recenti, alquanto incostanti, in concomitanza con la curva dei contagi che fatica a scendere, hanno visto una sorta di disincanto. Non siamo sicuri che “andrà tutto bene”, né sappiamo quando tutto ciò potrà finire.

    C’è uno stato d’ansia generalizzato che si percepisce anche senza bisogno di particolari rilevazioni statistiche. A marzo, quando scadrà la proroga ai licenziamenti, molte persone probabilmente perderanno il posto di lavoro artificiosamente mantenuto operativo pur in presenza di crolli della domanda e degli incassi.

    Aperture e chiusure danno la misura di quanto sia difficile contenere e tenere sotto controllo l’epidemia, cui si aggiunge la non chiarezza sulla reale portata dei contagi, ma anche un incomprensibile ritardo nell’adozione di misure radicali volte a riportare la situazione almeno a una parvenza di normalità.

    Tutto il nostro assetto istituzionale è sotto stress, riforme pensate e adottate sotto l’impulso del momento hanno mostrato tutti i loro limiti.

    Confusione, sovrapposizione delle competenze ma anche tagli orizzontali privi di senso e irrazionali, nella scuola come nella sanità, e modus operandi datati impediscono, soprattutto ora, un efficace funzionamento di molte strutture, che visioni politiche orientate alle necessità momentanee del consenso accentuano.

    Mancano insegnanti e viene presentata la chiusura del concorso entro il 2021 come un successo. Sul piano didattico si è ormai sperimentato di tutto: didattica in presenza, a distanza, mista, sincrona e asincrona; sforamenti di ore e anche dal profilo professionale.

    Il tutto senza che si sia pensato di mettere mano a una revisione complessiva e organica del contratto che ormai sembra quello dei lavoratori di Cartagine.

    Forse confidando che il virus duri poco. E speriamo che sia così. Ma se andasse per le lunghe?