di Adria Bartolich
L’alternanza scuola lavoro ha avuto una storia abbastanza travagliata. Istituzionalizzata dalla legge sulla “Buona scuola” varata dal governo Renzi, è stata oggetto spesso di critiche e ostilità.
Certo, la sua applicazione non è stata priva di intoppi, non siamo in Germania dove il cosiddetto sistema duale funziona da tempo e la dimensione delle aziende, in gran parte medio-grandi, facilita l’inserimento dei ragazzi; la nostra alternanza scuola-lavoro è stata regolamentata a pieno titolo solo tre anni fa e deve tenere conto di un tessuto produttivo fatto in maniera preponderante di piccole e piccolissime imprese, della stanchezza dei docenti italiani che in meno di vent’anni si sono visti calare sulla testa ben quattro riforme – Berlinguer, Moratti, Gelmini e Renzi – ed infine deve fare i conti non solo con la resistenza culturale della nostra tradizione umanistico-mediterranea nei confronti del sapere tecnico-scientifico, ma anche con una disparità e una disomogeneità delle situazioni sul territorio nazionale.
È un fatto che ci siano state applicazioni distorte dell’alternanza.
In molti casi l’attività svolta in azienda non aveva nessuna attinenza con la programmazione didattica e in molte scuole, soprattutto in aree in difficoltà sul piano economico, l’alternanza è stata solamente simulata, perciò privata di quel carattere esperienziale che la rende invece interessante per l’apprendimento.
In molte altre situazioni, però, l’alternanza ha funzionato, così come il rapporto con le imprese. Sono sorti coordinamenti anche di carattere istituzionale, tra Camere di Commercio, associazioni datoriali e sindacali, Province ed enti locali, proprio per regolamentare e seguire meglio le esperienze sul territorio, ricavando dati statistici ed elementi per migliorarne l’applicazione.
Certo, si tratta spesso di condizioni che si sono create nel tempo, addirittura precedenti alla “buona scuola”, ma se si crede che il rapporto tra mondo della scuola e imprese debba essere rafforzato, la scelta del governo di ridurre drasticamente i finanziamenti per l’alternanza rischia di compromettere un’esperienza che si stava, seppur faticosamente, affermando sul territorio, anche se in modo disomogeneo, e di diminuirne la portata e l’efficacia didattica; spesso, infatti, rappresenta una possibilità, per i ragazzi che hanno più difficoltà nello studio, di dimostrare invece abilità e competenze che la scuola, per come è strutturata, non riesce a identificare, ma nemmeno a fare emergere e sviluppare. Senza forzature, naturalmente, ma laddove si verificassero le possibilità di farlo, l’alternanza andrebbe incentivata .
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