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A Natale le città diventano variopinti mercati per adulti

di Agostino Clerici

È già Natale. Dopo un anno è ancora Natale. Due espressioni indicative di due diverse percezioni del tempo, che privilegiano ora la sua fuggevolezza ora la sua ciclicità. E così ogni anno il 25 dicembre arriva, sempre uguale e mai lo stesso. In fondo, nel suo sostrato cristiano questa festa ha la pretesa di trascinare il percorso di un anno di vita dentro un giorno che ne abbia a rappresentare insieme la delusione e la speranza, la lamentela e l’appagamento, il dolore e la gioia. In un crocevia di lacrime e sorrisi, da un Natale all’altro qualcuno che aveva festeggiato con noi non c’è più e qualcuno che è appena nato è entrato nel vortice della vita. A Natale si può sperimentare il massimo della condivisione con la sua fuggevole allegrezza, ma si può avvertire anche la fitta della solitudine con la sua durevole sofferenza. E magari quello di quest’anno è il Natale buono in cui un moto di condivisione riuscirà a sanare il vuoto di una solitudine.

Insomma, se non ci fosse, Natale bisognerebbe inventarlo. I cristiani ci hanno messo quasi tre secoli per pensare a questa data simbolica per festeggiare la nascita di Gesù Cristo, e hanno scelto una festa romana introdotta nel 274 dall’imperatore Aureliano nel solstizio d’inverno per celebrare il Sole Invitto. Le giornate cominciavano ad allungarsi, la luce vinceva sulle tenebre, il dio Sole che sembrava sconfitto dimostrava sul campo d’essere invincibile (proprio come l’esercito di Roma): bisognava adorarlo e aiutarlo a crescere (da qui l’usanza di accendere fuochi nella notte).

Senza saperlo l’imperatore romano, rendendo culto a un astro celeste, aveva inventato la festa di Natale, creando l’occasione simbolica per il suo sorgere: il Cristo, infatti, è il vero «sole invitto» e comincia a vagire in una mangiatoia nel momento in cui luce e tenebra si equivalgono, facendo propendere la bilancia della storia per sempre verso la luce. Questa confusione tra la teologia pagana e quella cristiana continua a sussistere, tanto è vero che oggi qualcuno, avendo pensionato Gesù Bambino e anche Babbo Natale, cerca di far risorgere l’antico simbolismo pagano e parla non più di Natale ma di festa della luce invernale.

Sta di fatto che, pur essendo vero che i cristiani hanno rubato ai pagani la loro festa per innestarvi il proprio simbolismo, la festa del Sole Invitto ebbe al massimo una cinquantina d’anni di vita mentre il Natale cristiano dura da diciassette secoli. E di rivoluzioni e involuzioni ne ha conosciute tante. C’è la sensazione che, dopo l’esplosione del consumismo (a partire dagli anni Settanta) che ha messo nell’ombra i contenuti cristiani del Natale e ha laicizzato anche l’Avvento, da qualche anno a questa parte sia cominciato il lento declino della centralità dei bambini a Natale. Le città – compresa Como – per quasi due mesi sono dei grandi e variopinti mercati per adulti, in cui pare che il bisogno primario della società sia quello di mangiare. Le luminarie con le loro scenografie sparate sugli edifici affascinano e insieme stordiscono i sensi.

Eppure del Natale, quello vero, oggi c’è ancora più bisogno e dobbiamo continuare ad augurarcelo sereno e buono. Se possibile, facendo prevalere i desideri sulle nostalgie. Perché la vita corre avanti, fuggevole e veloce, ma ogni tanto rallenta e si ferma. Come ogni anno a Natale.

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