di Agostino Clerici
L’emergenza sanitaria mondiale provocata dalla diffusione
del Covid-19 rischia di far passare sotto silenzio eventi internazionali che
invece hanno un importante spessore politico e sociale. Uno su tutti. Sabato
scorso a Doha è stata siglata l’intesa tra Stati Uniti e talebani per la pace
in Afghanistan. Un traguardo rilevante che si annuncia però colmo di incognite.
Una, ad esempio, riguarda la trattativa vera che a giorni inizierà tra talebani
e governo di Kabul per la definizione di una pace concreta. Nel frattempo si
procederà a un ritiro progressivo delle forze armate statunitensi e degli
alleati (gli italiani attualmente in territorio afghano sono 900) che dovrebbe
concludersi entro aprile 2021.
Come spesso accade in queste operazioni di pace forzata, le
intese passano disinvoltamente sulla testa del popolo, che al cosiddetto tavolo
della pace non si siede affatto. Il presidente americano Trump vuole
disimpegnarsi da una guerra che gli Stati Uniti non sono riusciti a vincere
(come a suo tempo in Afghanistan era capitato anche all’impero sovietico). I
talebani vogliono mantenere un potere effettivo nella gestione del territorio e
della popolazione secondo una visione islamista profondamente illiberale. Mano
a mano che si perfezionerà il progressivo disarmo americano, c’è il rischio che
riprenda vigore l’arroganza talebana tesa a spegnere i focolai di libertà che
in questi anni hanno quantomeno diffuso il seme della libertà, soprattutto per
quanto riguarda la condizione femminile. Paradossalmente l’unico a perderci con
la pace afghana rischia di essere proprio il popolo afghano, che potrebbe veder
cancellati, da una pace zoppa, i timidi segnali di una primavera di libertà che
il governo legittimo di Kabul potrebbe non essere più in grado di garantire
senza l’ombrello della presenza militare statunitense.
Un’altra emergenza internazionale, che riguarda più da
vicino la nostra Europa, è quella che ha come indiscusso protagonista il
presidente turco Erdogan. Coinvolta nel conflitto siriano e nella diatriba con
l’ingombrante presenza curda (l’ultima crisi risale all’ottobre dello scorso
anno), la Turchia – che pure è membro della Nato – gioca da anni un ruolo
ambiguo sullo scacchiere insieme europeo e mediorientale. Migliaia di disperati
in fuga dalle guerre (Siria, Somalia e appunto Afghanistan), praticamente
«venduti» nel 2016 con un accordo sciagurato per sei miliardi di euro
dall’Europa alla Turchia perché li trattenga entro i propri confini, sono
diventati una sorta di liquame umano con cui Erdogan minaccia apertamente di
inondare i Paesi europei. Che cosa chiede in cambio il presidente turco? Un
forte appoggio diplomatico dell’Occidente per frenare il presidente russo Putin
nel suo sostegno al presidente siriano Assad. Come al solito l’Europa sembra
non esserci, e l’appello dunque rimbalza oltre oceano a Trump. Ma il mare in
cui si muovono le ondate di profughi è il nostro, il Mediterraneo.
È un brutto spettacolo, quando i popoli sono ostaggio di un
trattato di pace o merce di scambio di una strategia di guerra. Un segno che il
nostro mondo è minacciato da un virus ben più nefasto di quello che in questi
giorni ci fa così tanta paura. Ha tanti nomi, ma il risultato è ugualmente letale
per quella che ci ostiniamo a chiamare «umanità».
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