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Aliquota fissa e ingiustizia certa

di Giorgio Civati

Quanta confusione in tema di tasse. Anzi, quanta ingiustizia: se, infatti, pagare allo Stato una quota dei propri guadagni ha una logica indiscutibile, avendo in cambio tutta una serie di servizi che solo lo Stato, appunto, può gestire, erogare, pagare, il peso delle imposte in Italia è da decenni esagerato, mentre la “macchina” della riscossione aggiunge caos, difficoltà, norme incomprensibili o quasi. Di conseguenza, ogni passo verso una semplificazione o una riduzione delle tasse dovrebbe essere ottima cosa. E invece no, non sempre. Prendiamo la flat tax: sbandierata, usata come tema elettorale, promessa e poi rimandata, la tassa fissa, o piatta che dir si voglia, pare bellissima, come diceva un ex ministro delle finanze riguardo l’argomento. Una sola aliquota, fissa, certa.

Con pochi o nessun calcolo da fare, niente deduzioni e detrazioni, giustificativi, senza calcoli che si rischia di sbagliare. Eppure anche dietro una simile premessa si nasconde, e neanche tanto, l’ennesima ingiustizia. Quella che sta per debuttare è una imposta fissa del 15% che sostituirà Irpef, Irap e addizionali varie, per professionisti e piccole aziende sotto i 65mila euro di ricavi annui. Circa 2,5 milioni di contribuenti. E dal prossimo anno la flat tax al 20% si estenderà a chi fattura tra i 65 e i 100mila euro. Tutto bene per i diretti interessati: un ipotetico professionista che fatturerà, poniamo, 30mila euro pagherà 4.500 euro di tasse. Il 15%, facile e conveniente. Un bel vantaggio visto da qui. Un’ingiustizia, però, in generale. Sì, perché il dipendente da 30mila euro continuerà a pagare l’Irpef, cioè la tassa sui redditi delle persone fisiche, secondo le solite aliquote: 23% e poi 27% e infine, per un pezzetto di guadagni, il 38%. In totale, 7.720 euro. Ben più del libero professionista o del piccolo imprenditore.

A parità di guadagni, una fregatura per milioni di dipendenti a reddito fisso e un regalo per i piccoli lavoratori autonomi, le micro aziende, i professionisti. Se l’idea era buona, la realizzazione ci pare decisamente un’altra stortura. Tanto che, anche a Como, molti si interrogano sull’opportunità o meno di restare dipendenti o “mettersi in proprio”. Mantenendo lo stesso rapporto con lo stesso studio professionale o azienda, non più però come dipendenti ma come collaborazioni a partita Iva. Per pagare meno tasse rientrando nell’imposizione al 15%. Ma così facendo si perdono tutele, pensione, malattia e altre caratteristiche del lavoro dipendente. A spanne, un dipendente pagherebbe il 18% in più del proprio datore di lavoro: tanto, tantissimo. Ma quanto “vale” un contratto con assunzione magari a tempo indeterminato? E che senso ha dal punto di vista sociale e generalizzato questa agevolazione a pochi? Como e l’Italia avrebbero il diritto di pagare meno tasse. Ma probabilmente non in questo modo.

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