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I partiti non sono mutande

di Mario Rapisarda

C’era una volta, nella Prima Repubblica, la corrente. E cioè una sorta di piccolo schieramento all’interno del partito stesso. Tutti, grandi e piccoli, avevano le loro correnti. In particolare la Democrazia Cristiana, la forza più imponente a quel tempo, era il simbolo di queste suddivisioni interne, che portavano anche alla spartizione del potere (da destra a sinistra, nessuno escluso). Ma erano, prima di tutto, luoghi di pensiero. Per questo nascevano: rappresentavano ideologie e idealità, al netto di tutto quello che ha poi imputridito la politica nel corso degli anni. Comunque la si pensi, però, hanno contribuito a far nascere intelligenze e portare avanti ragionamenti, progetti, idee.

Morti e sepolti quei partiti, una cosa simile si è in qualche modo riproposta nelle forze politiche nate dalle ceneri delle precedenti. Con una specificità, purtroppo, ben diversa: non sono più – almeno nella maggior parte dei casi – correnti di pensiero, ma vere e proprie fazioni.

Hanno ereditato solo il peggio di quel che c’era prima.

A Palazzo Cernezzi, oggi, si stanno consumando pesanti lotte tra queste frange. Con un’aggravante: aver trasferito nelle istituzioni, e quindi sulle spalle dei cittadini, tali giochi di poltrone e di potere. Una sorta di Vietnam, di guerra nella boscaglia senza esclusione di colpi. Nulla sembra più contare alcunché. Forza Italia decide di ritirare gli assessori dalla giunta ma garantisce l’appoggio esterno. Uno dei due – Amelia Locatelli – si dimette subito, ma l’altro – Francesco Pettignano – si imbullona alla poltrona già spalmata di colla a presa rapida e lascia a sua volta il partito azzurro.

Il capogruppo, Antonio Tufano,  lo segue a ruota. Un bailamme totale, insomma. Un caos nel quale, lo abbiamo già scritto domenica e lo ribadiamo, soltanto il sindaco può tentare di mettere ordine imponendo una presa di coscienza collettiva. Dovrebbe sbattere i pugni sul tavolo e fare piazza pulita dei cattivi maestri, dei suggeritori occulti che ammorbano il clima del palazzo e relegarli nelle segrete stanze dei loro partiti. Oppure rimandare tutti a casa e tornare al voto.

I partiti, a loro volta, devono smettere di usare il Comune capoluogo come camera di compensazione delle loro faide interne e risolvere i problemi lontano dalle istituzioni, dove dovrebbero sedersi donne e uomini eletti dal popolo e non burattini delle segreterie.

Da ultimo mi permetto un richiamo alla coerenza: da tempo ormai assistiamo nella politica italiana all’andirivieni di persone iscritte a un partito che cambiano schieramento con la stessa frequenza con cui si cambiano le mutande. E questo sta avvenendo (a causa delle faide di cui sopra) con una frequenza imbarazzante anche alle nostre latitudini.

Ma i partiti, è bene ricordarlo, non sono mutande: se si viene eletti con una forza politica, o lì si resta, oppure si lascia sia lo schieramento sia lo scranno.

È una questione di serietà. Sempre che tale sostantivo abbia ancora un senso, oggi, in politica.

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