di Giorgio Civati
Ma cos’è il debito pubblico? La cifra la sappiamo più o meno tutti, 2mila e 300 miliardi di euro, 2.342 a luglio scorso, per l’esattezza. Una cifra mostruosa, che qualcuno si diverte a dividere per il numero degli italiani attribuendone a ciascuno una parte, che molti nemmeno riescono a immaginare e che altri proprio non considerano, o meglio considerano problema “altrui”. Ma la domanda è un’altra: cos’è questo debito? Tecnicamente rappresenta la differenza tra entrate e uscite dello Stato, più alte queste ultime, e quindi i soldi presi a prestito dall’Italia per “funzionare”, e cioè pagare stipendi dei dipendenti pubblici, aggiustare strade (quando lo fanno, ma questo è un altro discorso…), garantire sicurezza e investimenti, infrastrutture e via di questo passo. Come per una qualsiasi azienda o famiglia, indebitarsi in sé non è un male: capita, lo si fa piuttosto spesso. Entro certi limiti. I problemi però sono almeno un paio. Il primo riguarda i livelli di debito, le cifre, i relativi interessi. Qualunque piccolo imprenditore sa bene che se chiede ventimila euro a una banca per cambiare il furgone deve essere in grado di restituirli, deve cioè “valere” come debitore, e poi dovrà pagare gli interessi: saranno più alti meno è solida la sua attività e i suoi conti. Ecco, di questi tempi l’Italia appare sempre di più come un imprenditore malmesso e malandato. Non è una novità, nei decenni è accaduto spesso, ma questo non toglie che la situazione potrebbe diventare ancora più difficile. Perché, se cala la voglia di acquistare Bot, Btp e Cct, all’Italia – cioè a noi tutti – tocca pagare interessi più alti. Togliendo risorse ad altre iniziative, investimenti, assistenza alle fasce più deboli. Altro problema: non è proprio vero che l’Italia si è indebitata “solo” per far funzionare la macchina pubblica. Lo ha fatto, nei decenni, anche per guadagnare consensi e per ingraziarsi l’elettorato. Lo hanno fatto tutti da più di quarant’anni: le statistiche sul debito pubblico evidenziano infatti governi di tutti i colori e gli schieramenti, politici di ogni genere e ideologia. Così fan tutti, verrebbe da dire. È vero, ma occorre non dimenticare che in quel “tutti” ci siamo anche noi. Che l’abbiamo lasciato fare, che non ci siamo preoccupati né indignati, anzi magari ne abbiamo goduto contenti nel nostro piccolo. In un concorso di colpe che ci ha portato alla situazione attuale.
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