“Il mio cane sta male, non vengo a lavoro” | Ultim’ora, da oggi puoi farlo sul serio: lo ha stabilito la Cassazione

“Il mio cane sta male, non vengo a lavoro” | Ultim’ora, da oggi puoi farlo sul serio: lo ha stabilito la Cassazione

Cane - Pexels - corrieredicomo.it

Una sentenza della Cassazione apre alla possibilità di restare a casa col cane malato, ma solo rispettando requisiti precisi.

Per anni la frase “il mio cane sta male” è sembrata più una scusa che un motivo valido per chiedere un permesso.

Oggi, però, il confine tra vita privata e ufficio si fa più sottile: nel dibattito sul work-life balance entra anche il diritto di prendersi cura degli animali domestici durante l’orario di lavoro, con l’idea che non siano più semplici “accessori” della famiglia.

In questo scenario il mondo giuridico ha iniziato a interrogarsi su come leggere i cosiddetti “gravi motivi personali e familiari” quando a stare male non è una persona, ma un cane o un gatto. È qui che prende forma un cambio di prospettiva: la salute degli animali d’affezione viene considerata parte della sfera affettiva del lavoratore e, in casi ben definiti, può giustificare un’assenza retribuita, senza che questo venga trattato come un capriccio.

Cosa prevede la sentenza della Cassazione per cane e gatto

Il punto di svolta è una decisione della Corte di Cassazione, la sentenza n. 15076/2018. I giudici di legittimità hanno riconosciuto che il dipendente può assentarsi dal lavoro, con permesso retribuito, per affrontare situazioni di emergenza sanitaria che riguardano il proprio cane o gatto. In questa interpretazione, l’assistenza all’animale viene equiparata – in casi specifici – a quella prestata a un familiare malato, allargando il significato di “gravi motivi personali e familiari” in modo più aderente alla realtà sociale.

La Corte, però, è chiara sui requisiti: il diritto non è automatico. Serve una certificazione veterinaria che attesti l’urgenza della malattia e la necessità di assistenza immediata, e occorre che non vi siano altre persone in grado di occuparsi dell’animale. In presenza di queste condizioni, il datore di lavoro è tenuto a concedere il permesso, evitando di esporre il dipendente al rischio di violare l’art. 727 c.p., che punisce l’abbandono di animali.

Cagnolino con la sua padrona – Pexels – corrieredicomo.it

Verso permessi retribuiti ad hoc per gli animali domestici

Sulla scia di questo orientamento giurisprudenziale il legislatore si sta muovendo con una proposta di legge oggi all’esame della Camera. Il testo punta a inserire in modo espresso i permessi per la cura di cani e gatti tra quelli retribuiti e garantiti a livello nazionale: fino a tre giorni di assenza pagata in caso di decesso dell’animale e un monte ore annuale di 8 ore per malattia o cure veterinarie urgenti, sempre limitatamente ai propri animali domestici.

La scelta di concentrarsi su cani e gatti è legata al fatto che sono gli unici per cui esiste l’obbligo di microchip e di registrazione nell’Anagrafe nazionale degli animali da compagnia. Studi citati nel dibattito mostrano come malattia o morte dell’animale possano provocare stress, ansia e calo di produttività paragonabili a un lutto familiare, con ricadute anche sulla sicurezza sul lavoro. In attesa di una norma ad hoc, chi si trova in un’emergenza con il proprio animale può già richiamare la sentenza del 2018, presentare il certificato veterinario e confrontarsi in modo trasparente con il datore di lavoro per ottenere un congedo retribuito senza doversi più vergognare di dire: “il mio cane sta male, non vengo a lavoro”.