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Il tasto dolente delle zucche vuote

di Agostino Clerici

Ieri mi è venuta una domanda strana, una di quelle domande inutili che è necessario però farsi perché innescano una riflessione tutt’altro che inutile. Anzi decisiva. Ma il 1° novembre perché si fa festa?

Perché i ragazzi sono a casa da scuola e i grandi non vanno a lavorare?

Per non correre il rischio di fidarmi delle mie suggestioni, ho smanettato su Internet alla ricerca di risposte ufficiali tratte dai calendari delle festività scolastiche e lavorative. Ebbene: in Italia il 1° novembre non si va a scuola e non si lavora perché è la festa cattolica di Ognissanti (o Tutti i Santi).

Non ovunque è così in Europa e nel mondo. Per esempio, ho scoperto che il 1° novembre non è festivo in Gran Bretagna, Irlanda, Olanda, Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Grecia, mentre nella vicina Svizzera è festivo solo in 15 dei 26 Cantoni, e ugualmente solo in alcuni Lander della Germania.

Ultima curiosità: il 1° novembre è festivo anche in Algeria, ma non per la festa dei Santi: si ricorda il Giorno della Rivoluzione (contro i francesi). La risposta alla mia domanda era scontata.

Forse tutti sanno, se non altro per averlo trovato scritto sul calendario, che il 1° novembre è la festa dei Santi. Diverso è capire che cosa effettivamente festeggiano gli italiani in questo giorno. Forse la maggioranza fa soltanto festa, approfittando di una ricorrenza religiosa riconosciuta dallo Stato per riposare.

Tanti sono anche coloro che usano la festa dei Santi per fare il giro dei cimiteri, anticipando un gesto di pietà che nella prassi cristiana è legato al 2 novembre – Commemorazione dei fedeli defunti – che fino a qualche anno fa era anch’esso giorno festivo.

C’è ancora qualcuno che festeggia Ognissanti, unendo la visita del cimitero alla partecipazione alla Messa.

Il problema vero è rinnovare il valore di una festa che ha sicuramente radici lontane e che i cristiani europei celebrano il 1° novembre dall’anno 834, cioè da quasi dodici secoli.

Bisogna continuamente trasmettere un messaggio se si vuole parlare di «tradizione». Non basta che il calendario civile ospiti una festa perché essa continui a vivere, è necessario trovare modalità sempre nuove per innestarla nella mente e nel cuore delle giovani generazioni.

E qui arriva – su un terreno prettamente culturale e pedagogico – il vero tasto dolente.

Quando ero un ragazzo, già alle scuole elementari l’insegnante aveva tra le mani gli strumenti per collegare la festa dei Santi e il giorno dei Morti a una tradizione di significato, che s’accompagnava a un parallelo messaggio religioso, semplice ma robusto, e soprattutto radicato dentro una comunità coesa.

Erano gli anni Sessanta del secolo scorso e da allora forse è cominciata una pericolosa china discendente.

Si direbbe che, a fronte di un veloce progresso delle dinamiche comunicative con la nuova strumentazione digitale, si sia rattrappita la passione educativa, e sia venuta a mancare la fantasia per rimotivare una tradizione. Finché da oltre oceano non è arrivato il macabro surrogato di un’antica festività celtica. Halloween ha trovato un vuoto e lo ha facilmente riempito, contando anche sulla pigrizia di insegnanti ed educatori, che preferiscono accogliere entusiasticamente il carnevale delle zucche vuote piuttosto che riempire di senso la tradizione millenaria di Ognissanti.

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