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Il tessile, la qualità e l’inquinamento

di Giorgio Civati

Cosa accomuna una t-shirt probabilmente cinese, tinta chissà come e confezionata quasi certamente sfruttando una manodopera sottopagata, e un tailleur di Dolce & Gabbana? E una giacca di Armani con un paio di jeans di quelli da 9 euro e novanta, anch’essi di chissà quale provenienza e qualità? Li accomuna il fatto che questi capi d’abbigliamento come tutti gli altri a fine vita – corta o lunga che sia – diventeranno rifiuti.

Tonnellate e tonnellate ogni anno, tanto da rendere il tessile/abbigliamento il secondo settore più inquinante al mondo, accodato solo a quello degli idrocarburi. Colpa del fast fashion – roba a basso prezzo e di scarso valore e quindi da usare e buttare in fretta – ma anche della diffusa incapacità di aggiustare, riadattare, riparare e riciclare magari un cappotto passandolo dal fratello più grande a quello minore, come accadeva un tempo. E intanto secondo alcune stime la produzione annua di abbigliamento è di circa 100 milioni di tonnellate. Gran parte destinate in fretta a diventare rifiuti. Inquinanti, tossici, pericolosi. È, questo, un problema che riguarda tutta la filiera della moda visto che il mondo, cioè noi, non può sopportare a lungo questa situazione. In molti ci stanno ragionando, a partire da Como. Nel suo piccolo, il distretto tessile comasco rispecchia la realtà mondiale più ampia fatta di scarti, di avanzi, di prove andate male.

Insomma, di fili e stoffe da buttare che si sommano a vestiti e magliette e a tutto il resto dell’abbigliamento che dagli armadi transita velocemente verso le discariche. Tralasciando le lavorazioni del tessile/abbigliamento effettuate con sostanze chimiche – comunque anche su questo l’attenzione è sempre maggiore – per i rifiuti fatti di abiti, stoffe e fili un tentativo di riciclare gli scarti delle lavorazioni tessili è infatti in partenza su iniziativa del Centro Tessile Serico Sostenibile, che tramite Internet e un apposito portale provvederà a una raccolta di informazioni sull’argomento per poi cercare di avviare al recupero la maggior parte di scarti possibili o comunque di gestire al meglio lo smaltimento di quanto non può avere una “seconda vita”.

Buona iniziativa per il made in Como, ma il problema nel suo insieme è più ampio. E il problema, quello vero, è che nel giro di qualche decennio l’abbigliamento è diventato “a consumo”, in balìa di mode e gusti sempre in cambiamento, eccentrico ed esagerato tanto da far apparire datato e quindi importabile un capo anche solo dell’anno prima. Colpa degli stilisti? Della nostra superficialità come consumatori? Di certo c’è che in questa situazione perdono tutti. Il mondo, inquinato in grande misura anche e proprio dai capi d’abbigliamento dismessi, la Como del tessile che in questa frenesia all’insegna della bassa qualità e quindi dei prezzi sempre più ridotti fatica a distinguersi e a riaffermare le doti che l’hanno fatta grande nel tempo, probabilmente anche i consumatori ubriacati dall’estetica e sempre più distanti da una qualità che dovrebbe partire proprio dalle stoffe. Magari made in Como.

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