di Adria Bartolich
Com’è noto, sono da tempo convinta che il titolo sia solo, e forse in minima parte, uno dei prerequisiti necessari e utili per l’insegnamento. Per valutazioni persino banali: il titolo ha valutazioni diverse e un differente valore a seconda da dove sia stato acquisito. I titoli si possono, ahimè, come abbiamo visto, vendere e comprare. Il titolo certifica, se va bene, le conoscenze acquisite e una preparazione settoriale. Certo, se non c’è nemmeno questo è un problema, ma se vale praticamente solo il titolo, il problema non solo si ridimensiona ma si acuisce.
Per una semplice e logica ragione: per essere buoni insegnanti certo serve conoscere la propria materia, ma ancor di più occorre essere persone equilibrate, avere un’ottima capacità di comunicazione e una flessibilità sempre più necessaria per utilizzare diverse strategie didattiche, mezzi e strumenti, soprattutto in considerazione della varietà di situazioni sociali e culturali che la scuola si trova ad affrontare. Per ultima ma assolutamente fondamentale, l’abilità e l’attitudine di porsi in relazione con i bambini o ragazzi che siano, comprendendo in primo luogo le difficoltà che ogni percorso di crescita umana comporta, soprattutto quando si è giovanissimi. In altre parole, oltre a una solida formazione culturale che dovrebbe essere attestata dal titolo, occorre anche un’altrettanto granitica formazione psicopedagogica e del talento naturale.
Capisco che parlare di talento, qualità solitamente accostata alle arti creative, possa sembrare fuori luogo, ma è invece la caratteristica fondamentale che fa da spartiacque tra un mestierante, per parlare del livello più basso, un professionista, per parlare di un buon livello, e un ottimo insegnante. Per fare parte di quest’ultima categoria occorre un bel po’ di talento naturale. Solo che, nella storia del sistema di assunzione della scuola, non è mai stato nemmeno preso in considerazione qualche cosa che, almeno lontanamente, possa essere considerato un misuratore di talento. Eppure di insegnanti bravi ce ne sono stati e ce ne saranno. E tutti, genitori e alunni, colleghi e dirigenti, sono assolutamente in grado di dire quali siano. Tutti, tranne il sistema di reclutamento.
Non è difficile capirne la ragione profonda: nella pubblica amministrazione in genere, il posto è per sempre, e un’assunzione, non perché ci sia scritto da qualche parte, bensì per prassi consolidata, giurisprudenza, forma mentis del personale e delle organizzazioni di categoria, usi e costumi, è praticamente a vita. Nella recente riforma del ministro Brunetta con l’accento esagerato posto su voto e titoli, mi pare di potere dire che tutto questo non ci sia. Attendo fiduciosa una smentita.
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