La de-globalizzazione imposta dalla pandemia

La de-globalizzazione imposta dalla pandemia

di Agostino Clerici

Uno degli effetti meno considerati del Covid è quello che chiamerei «de-globalizzazione». È un drammatico rimpicciolimento del mondo che contrasta con l’ondata di globalizzazione in cui eravamo inseriti da qualche decennio. Sembrava un fenomeno inarrestabile destinato a trasformare il mondo in un villaggio globale, invece il mondo si è improvvisamente ridotto entro i confini del proprio villaggio. Ed è paradossale che a de-globalizzare il mondo sia stato un fatto pandemico, ovvero diffuso in tutto il mondo. Attenti a comprendere bene che cosa è successo.

Non si tratta semplicemente di un arresto forzato (e provvisorio) della potenza viaggiante dell’homo turisticus. È una vera e propria riduzione dello sguardo. Il coronavirus è pandemico, ma a me interessa unicamente quel che succede nel luogo in cui vivo. Sì, i mezzi di comunicazione ogni tanto ci offrono una mappa mondiale tutta bella colorata, e veniamo informati in modo succinto di quanto accade in Asia, in Africa e nelle Americhe, ma con il tempo questo interesse mondiale si è notevolmente affievolito e ormai serve solo a marcare le differenze tra le diverse politiche sanitarie e verte sui successi o le lentezze delle campagne vaccinali.

Nelle ultime settimane, poi, quella vetrina mondiale è finalizzata quasi esclusivamente a mostrare quanto siamo stati bravi noi italiani. Oppure, visto da una visione ideologica diametralmente opposta, a dimostrare quanta libertà ci è stata sottratta. In verità, l’unica cartina che ci interessa veramente è quella – al massimo – della Regione Lombardia, comunque quella che fotografa la situazione della nostra città e ci consola sapere che i numeri più drammatici sono tendenti allo zero. Sarà pure un legittimo tentativo di normalizzare l’emergenza, ma sta di fatto che la pandemia – secondo la considerazione che in molti hanno oggi – è diventata poco più che una tranquilla malattia locale.

Non sta a me giudicare questa diffusa percezione del Covid in ordine alla evoluzione del quadro sanitario globale. Sta di fatto che essa è sicuramente rassicurante sul piano psicologico individuale ed è anche positiva ai fini di una ripartenza dell’economia. Sembra anche corrispondere a quel diffuso desiderio di «tornare come prima» che ha segnato, un anno e mezzo fa, il periodo in cui eravamo tutti chiusi in casa con tante domande e poche certezze. Ma davvero è giusto «tornare come prima»? A me pare che questa pandemia debba insegnarci due movimenti che sembrano opposti ma che in realtà devono convivere se vogliamo che la nostra umanità sia decisamente «meglio di prima». Innanzitutto è necessario non perdere quella solidarietà tra i popoli e le culture che la pandemia ha tracciato entro un contesto negativo, e sta a noi trasformarla in una nuova opportunità positiva.

Ma questo processo può avvenire concretamente solo dentro un territorio abitato e conosciuto, nella trama delle relazioni personali, piccole, preziose e belle. Se non comprendiamo che la tanto invocata libertà non è una pretesa individualistica ma è il dono che ciascuno fa all’altro, difficilmente potremo superare quel sospetto verso l’altro che la paura del contagio ha notevolmente ampliato rispetto a prima e radicato dentro di noi. Solo così non torneremo indietro, ma insieme andremo avanti.