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La fatica del confronto e della competizione

di Adria Bartolich

Come molti sanno, negli ultimi anni è stato registrato un fenomeno in continuo aumento, quello degli hikikomori, cioè di persone che per una serie infinita di ragioni letteralmente sfuggono dalla vita sociale.

Il termine che li descrive, come si può facilmente intuire, è di origine giapponese, perché è là che si è presentato anche se si sta diffondendo a macchia d’olio nei Paesi sviluppati. È una sorta di sindrome del ritiro diffusa tra ragazzi soprattutto giovani, cresciuti in una società molto competitiva e prestazionale nella quale la spinta all’autorealizzazione personale è fortissima e perciò devastante, che a un certo punto decidono scientemente di non avere più relazioni sociali. Si chiudono in casa, passano spesso notti insonni navigando nel web con false identità e profili falsi e non hanno relazioni con il mondo esterno se non virtuali. Smettono di andare a scuola, si chiudono in camera, stanno al buio, non frequentano nessuno.

Pare che questo isolamento consenta loro di tenere sotto controllo fantasie autodistruttive se non addirittura suicide. Non sono casi limite come si potrebbe pensare. Sono invece il termometro di un malessere diffuso nelle società dell’opulenza, e modalità relazionali molto frequenti, seppure con diverse intensità di sfumature, tra i pre-adolescenti e gli adolescenti, acuite soprattutto dalla lunga fase di chiusura per l’epidemia di Covid, nel corso della quale molti di loro hanno scoperto di stare meglio senza gli altri. Inutile dire che tanti adulti conoscono benissimo non dico la sindrome, ma almeno il desiderio di scappare da tutti tentando così di semplificarsi l’esistenza. Sul tema esiste un’ampia letteratura, dai romanzi d’autore incentrati sul protagonista che fugge ai tropici, al film sulla legione straniera, alle barzellette sul tipo che esce per comprare le sigarette e sparisce per sempre. Il desiderio di fuga  è sempre stato frequente nella vita di molte persone. L’aspetto che più colpisce, nel nostro caso, è la giovane età dei protagonisti che corrisponde più o meno a quella nella quale l’aspetto della relazione con i coetanei, dovrebbe rappresentare non solo una necessità ma anche un vero e proprio elemento di crescita umana e sociale. Se a un adolescente togli il gruppo, togli tutto. Almeno fino ad ora è stato così.

Questi ragazzi invece sperimentano il gruppo non come comunità d’appoggio e solidale ma come fatica. Fatica del confronto, della competizione, della relazione, perché troppo precocemente messi nella condizione di dovere superare qualcuno e impattare con i metodi feroci che una competizione senza limiti alimenta, non potendosi mai fidare veramente di nessuno e sentendo il mondo come opprimente ed aggressivo. Chi non vince è perduto, ma spesso anche chi vince lo è, roso dall’invidia e le carognate dei perdenti frustrati.  In un mondo dove alla fine si è tutti infelici il ritiro sembra, tutto sommato, un atto di sanità mentale. Anche se non vi è dubbio, però, che il mondo sia malato.

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