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La grande dipendenza del Lario dall’economia cinese

di Giorgio Civati

Il primo aspetto è quello sanitario: il Coronavirus è
soprattutto e principalmente un problema di salute, e questo è innegabile. È
però anche altro. Una questione sociale, per esempio, riferita alle quarantene,
allo “stop” più o meno brusco e ai cambiamenti che stanno subendo le vite di
molti in Italia e nel mondo.

Ed è, poi, anche una situazione dai risvolti economici
ancora da tutti da definire ma comunque enormemente negativi.

La Cina, che ha dato il via alla diffusione del virus prima
al suo interno e poi nel mondo, è infatti uno degli attori principali
dell’economia mondiale. Produce di tutto e per tutti, e con i blocchi in corso
potrebbe interrompersi più di una catena di fornitura, non ultima quella di
filati e tessuti che tanto da vicino riguarda anche Como. Produce, come ha
fatto per decenni, ma negli ultimi tempi soprattutto acquista, anche beni di
lusso.

E se, come sta accadendo, l’ex Celeste Impero smette di
comperare, vanno in crisi intere economie. Come quella del made in Como del
tessile. Tra Como e la Cina il rapporto è cambiato moltissimo nel tempo, ma una
caratteristica non si è mai modificata: quella di una ampia dipendenza del
Lario verso il Paese asiatico. Dalla metà del Novecento in avanti e fino alla
fine del secolo scorso, la Cina era infatti un fornitore: atipico, monopolista,
slegato da logiche di mercato e pronto a fare scelte politiche più che
economiche per controllare l’economia ma indispensabile perché produttore di
oltre il 90% dei filati serici al mondo. Intorno al 1990, per esempio, la Cina
vendeva al resto del mondo un chilo di camicette di seta a un prezzo più basso
di quanto invece vendesse il solo filo. Monopolio, dumping sui prezzi,
forniture gestite dallo Stato ne hanno fatto un concorrente oltre che un
fornitore. Dei setaioli comaschi ma anche delle aziende più tecnologiche e
innovative statunitensi ed europee.

Col nuovo secolo, però, la Cina è diventata soprattutto un
cliente. Anche e soprattutto per i beni di lusso, con la moda in primo piano.

E ora negozi chiusi, previsioni di crollo delle vendite per
decine e decine di milioni e incognite a non finire sono il presente e
l’immediato futuro.

I big della moda fatturavano 
proprio in Cina tra il 20 e il 30% o anche oltre dei loro ricavi totali.
Il gruppo Kering che realizzava il 34% delle vendite in Cina ha parlato di
“forte calo delle vendite”, per Burberry sono stati stimati 80 milioni di
sterline di minori vendite nel primo trimestre dell’anno mentre sono 100 i
milioni di dollari di mancate vendite previsti da Capri Holding (cui fanno capo
altri grandi  marchi).

E il tessile di Como, che di questi e altri big mondiali
della moda è fornitore, forse pensava di essersi affrancato finalmente da una
posizione che lo penalizzava così tanto in passato ma scopre di essere ancora e
sempre dipendente dalla Cina. Fornitore, concorrente o cliente, l’ex Celeste
Impero resta fondamentale per l’economia mondiale e forse ancora di più per
quella di Como.

Redazione

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