di Mario Guidotti
«Dottore, sto bene, ha proprio indovinato la cura». Superato il primo momento di (rara) soddisfazione per il benessere del malato, il medico non può trattenere l’irritazione. Ma come indovinato? Sono trenta-quaranta-cinquanta anni che studio, mi aggiorno piegato (e piagato) sulla scrivania, ed il mio paziente dice che ho indovinato la terapia? Dove sta la Scienza, il metodo di Claude Bernard, la prova galileiana, il rigore, la Medicina basata sull’evidenza? Tanto poi mi credono un indovino. Eppure è così ed i motivi meritano alcune riflessioni.
La prima è che la Scienza medica sia ancora dai più percepita come Arte. Buona parte del demerito è della stessa categoria, che non sempre ha dei comportamenti scientifici, ma ancora paternalistici e appunto “artistici”. Ci piace essere roboanti, creare, inventare, mentre il nostro compito dovrebbe essere di applicare con metodo scientifico le evidenze mediche. Stop. Certo, poi c’è l’importanza dell’ascolto, la Medicina di narrazione, l’empatia, la fiducia, l’autorevolezza, la credibilità e tutta una serie di fattori che possono, anzi devono accompagnare la parte scientifica, ma non prevaricarla.
L’altro punto che fa pensare che la cura sia però indovinata è legato al fatto che molte e troppe altre volte la stessa o altre non abbiano funzionato. Ed è vero. Certe soluzioni terapeutiche, anche se sono provate da decine di studi clinici condotti con il massimo rigore scientifico, anche se hanno alle spalle trials metodologicamente inattaccabili, non funzionano in taluni soggetti. Guardate bene, anche gli studi con i risultati più favorevoli non arrivano mai al 100% di guarigioni. Anche l’analgesico più efficace non funziona allo stesso modo in tutti. L’antibiotico più comune non guarisce ogni tonsillite. L’anticoagulante con l’azione più evidente agisce in maniera variabile nelle diverse persone ed anzi spesso differentemente nello stesso soggetto in fasi diverse dell’anno. Figuratevi poi i chemioterapici, i farmaci biologici, gli psicofarmaci e via curando. Dipende dalla sensibilità e variabilità individuale al farmaco.
Sì perché ciascuno di noi assorbe una medicina in modi diversi non solo da altri soggetti ma anche in fasi diverse della giornata. Poi elabora i farmaci tramite recettori, che cambiano nel tempo, li metabolizza attraverso micro-meccanismi intracellulari che non sempre funzionano, perché non dimentichiamo che siamo “macchine imperfette”, ed alla fine li espelle tramite organi emuntori. Tutto questo sistemone non solo soffre di difetti, ma di estrema variabilità tra le persone.
La soluzione è all’orizzonte e si chiama “farmacogenomica”, cioè ognuno avrà il suo medicinale in base al proprio corredo genetico. L’aspirina per il signor Rossi, l’antibiotico per Bianchi. Sarà una vera rivoluzione, anche se non sarà una passeggiata per la sostenibilità economica del sistema, quindi vale ancora di più il detto: mettiamo via i soldini per quando saremo vecchi e malati.
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