La strage in Alto Adige e le ipocrisie sullo sballo

di Agostino Clerici
La tragedia che ha colpito la Valle Aurina, con la morte di
sei giovani tedeschi investiti e uccisi da un ventisettenne della Val Pusteria,
è solo l’ennesimo episodio di violenza del sabato sera. Certo il bilancio
dell’intemperanza di uno solo è stato davvero tragico e ha innescato le solite
parole, che invocano da una parte una esemplare punizione e dall’altra la
prevenzione e i controlli. Ma sono parole al vento se non si accompagnano ad un
serio coinvolgimento della responsabilità personale e ad una decisa
regolamentazione delle libertà individuali. La nostra società invece poggia su
un teorema assai strano, che vorrebbe garantire la libertà di ciascuno,
vincolandola soltanto all’individuo e correggendola semmai con qualche
precauzione.
Veniamo al caso concreto. Il giovane che ha provocato la
strage di Lutago non avrebbe dovuto guidare, perché il suo tasso alcolemico era
superiore di quattro volte rispetto al consentito. Già, e chi glielo impediva?
Inoltre, il giovane ha dichiarato che non si era accorto di essere ubriaco,
tanto è vero che si stava dirigendo verso un altro locale. Già, e chi avrebbe
potuto impedirglielo? Su queste domande inevase cade ogni seria possibilità di
correzione di una libertà malata ma intoccabile. Certo, il giovane avrebbe
potuto incappare in qualche controllo stradale che, stabilita la sua inabilità
a guidare, gli avrebbe impedito di finire con la sua macchina addosso al gruppo
di turisti e di seminare morte. Ma come è possibile pensare in tal modo di aver
risolto il problema? Quanti poliziotti servirebbero sulle strade del sabato
notte per scovare gli intemperanti e impedire loro di trasformarsi in
potenziali assassini?
E allora facciamola la domanda vera, quella che individua la
radice del problema ad un livello più profondo: ma per divertirsi è davvero
necessario ubriacarsi ed è intelligente permettere che sia così facile ottenere
questo risultato? E qui, su questa domanda, viene a galla il gioco delle
ipocrisie, perché ciascuno porta le sue attenuanti prima ancora di riconoscere
le sue colpe. E, comunque si risponda, c’è la sensazione che resti sullo sfondo
l’intoccabilità del sacrosanto diritto allo sballo. Ed è un liberticida chi lo
mette in dubbio. Come se l’abitudine ad ubriacarsi, soprattutto se si è
giovanissimi, non sia già un male, anche quando un ubriaco non diventa un
omicida della strada.
La cultura dello sballo è sbagliata in se stessa, e una
società civile che si rispetti dovrebbe lavorare per scardinarla
indipendentemente dai danni collaterali che essa può provocare. Invece si
continua a predicare una morale ridicola, secondo cui uno può anche rovinarsi
la sua vita, basta che in questo processo di autodistruzione non faccia del male
ad un altro, innocente e inconsapevole. Sento spesso fare un ragionamento
simile da qualche giovane, presentato come campione della responsabilità:
«Facciamo in modo che uno del gruppo non beva, così al ritorno guida lui e
porta a casa gli ubriachi». Come tattica per evitare le stragi della notte può
anche essere utile. Ma mi sembra il classico calcolo al ribasso. Lasciatemi
dire che con questo ragionamento non si va lontano sulla via del vero bene,
soprattutto delle giovani generazioni.