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L’impietoso confronto con l’Agro Pontino

di Marco Guggiari

Fu impiegato meno tempo, in fondo soltanto undici anni, per bonificare l’Agro Pontino rispetto alla “cella 3” dell’area ex Ticosa a Como. Sì, perché nel primo caso l’opera immensa che impegnò 50mila operai reclutati in tutta Italia, si svolse dal 1926 al 1937. Nel caso del terreno inquinato dietro alla Santarella, invece, siamo fermi al palo dalla primavera del 2007, quando le analisi fatte stabilirono che perfino l’aria, lì, era inquinata di amianto. Dell’Agro Pontino si parla ancora oggi come di una delle opere più importanti dell’allora regime fascista: oltre al prosciugamento delle paludi, furono costruiti canali, disboscate foreste, edificati nuovi centri. Tutto su una distesa di 20mila ettari di terra; per l’ex Ticosa si tratta invece della misera cifra di 12 mila metri cubi. Un confronto che segna una distanza abissale e pur sempre impietoso.

Le immagini, retoriche fin che si vuole, dei cinegiornali d’epoca dell’Istituto Luce dedicate a quella zona del Lazio tornano alla mente dopo l’ennesima doccia gelata che riguarda la bonifica di stretto interesse comasco. Per noi questa doveva essere la volta buona, ma come in un estenuante Gioco dell’oca torniamo di nuovo al “via”: tempi e costi si dilatano. L’impresa che si è aggiudicata i lavori, è vicenda nota, ha rinunciato alla loro esecuzione. Preferisce perdere i 43mila euro versati per la cauzione piuttosto che aprire il cantiere. Una scelta legittima, anche se ci mette in crisi.

Dal Comune capoluogo però non filtra il perché e questo suona antipatico. Nessuno spiega niente e non si capisce se questo avviene perché nessuno sa, oppure per il fatto che non si vuole rendere pubblica la motivazione. Il risultato però è che le verifiche per stabilire se l’azienda seconda classificata nella gara d’asta abbia tutti i requisiti richiederanno altri tre mesi, i costi aumenteranno di 300mila euro a causa del minore ribasso e l’opera, per chi ci crede, finirà dopo l’estate 2022. Una data che, d’accordo, ci mette al riparo dalle inevitabili e irritanti vetrine e parate pre-elettorali della primavera prossima, ma che allontana ancora la possibilità di un parcheggio a ridosso del centro in attesa di una soluzione completa e più articolata sull’area.

Agro Pontino a parte, questa storia della Ticosa è emblematica di quanto una situazione irrisolta, simbolo dei nostri ritardi e del nostro immobilismo, riesca ad attraversare vere e proprie epoche diverse non solo di una città, ma di una nazione. Pensiamoci. La storica tintostamperia ha chiuso i battenti nel 1982, prima repubblica, mentre oggi siamo forse alla fine della breve stagione di quella che viene chiamata terza repubblica, sebbene queste siano definizioni tutte italiane in assenza di veri passaggi di svolta marcati da modifiche costituzionali.

La lunga fine della Ticosa ha toccato i “rampanti” anni Ottanta, periodo di modernizzazione economica e sociale e fine del terrorismo che ci aveva insanguinati. Ha passato i Novanta, decennio in bilico tra certezze e incognite all’insegna del progresso tecnologico. Ha oltrepassato i Duemila, l’addio alla lira e l’inizio di un tempo di declino con la crisi finanziaria del 2008. Ha guardato gli anni Dieci del nuovo millennio e il boom dei “social”. Supererà anche il presente attuale che ha l’impronta della terribile pandemia. Sì, immota e statica, la Ticosa resterà tale anche un po’ dopo il Covid. E, in fondo, a ben vedere è una previsione che consola.

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