di Mario Guidotti
Se il sintomo persiste… insultare il medico. I recenti fatti di aggressione fisica, da parte di parenti rancorosi a spese del personale sanitario, apparentemente responsabile di insuccessi clinici, è solo la punta dell’iceberg di quanto sta accadendo nei rapporti tra familiari e medici.
C’era un tempo in cui si dialogava molto, ci si prendeva quasi per mano per creare una cintura di protezione intorno all’ammalato, a volte tenuto anche troppo e colpevolmente all’oscuro di quanto era in essere o in divenire per la sua salute. Ora, nella maggior parte dei casi e beninteso non per tutti, c’è un clima di pretesa, mentre manca profondamente la collaborazione. Il rapporto è nullo, polverizzato. Si parte dal concetto che qualsiasi fallimento terapeutico sia una colpa, una responsabilità del personale sanitario, ovviamente soprattutto del medico. Il tutto condito da una totale mancanza di chiarezza dei ruoli.
Facciamo alcuni esempi per capirci. Il malato, magari anziano, arriva in reparto dopo faticosi ed estenuanti giorni passati in Pronto soccorso. Parenti che lo accompagnano? Spariti. Ancora: paziente anziano fragile con storia clinica complicata e che fa fatica ad esprimersi. Voi credete che chi lo accompagna abbia gli esami precedentemente eseguiti? Macché! Continuando: parenti che fanno sommosse in Pronto soccorso perché il proprio congiunto sia visitato prima. Accompagnatori di visite ambulatoriali, che vanno per le lunghe, che fanno i diavoli a quattro perché è scaduto il tempo del parcheggio dell’auto. Parenti che fumano in reparto o sul balcone della camera di degenza. Amici che si sdraiano sul letto del paziente magari con vestiti sudici. Care-givers che usano (e abusano) il bagno dei degenti. Gente che telefona con cellulari vicino a macchinari medici, altri che urlano in corridoio. Parenti che portano pizze, sgombri ed acciughe a chi è ricoverato.
Ma che cosa è successo? È solo maleducazione o c’è dell’altro? Senza contare il mancato rispetto degli orari di visita, l’andare e venire dai reparti, anche semi-intensivi, a proprio piacimento. Da una signora cui segnalavamo l’inopportunità di portare in giro per il reparto la propria madre instabile sulle gambe, ci siamo sentiti recentemente rispondere che “sapeva bene lei che cosa serviva alla propria mamma”! C’è quindi un misto di supponenza, autoreferenzialità e rifiuto delle competenze (molto di attualità), oltre, e questo va detto, ad un crollo dell’autorevolezza della figura medica. Perché? Come si può essere strafottenti di fronte a chi ha in cura il proprio caro? Si pensa probabilmente che quel medico o quel sanitario non abbia ruolo alcuno nella cura o nel successo terapeutico, salvo però, questo sì, addossargli le colpe in caso di insuccesso.
Tutto questo è triste perché non solo rende i rapporti sociali tesi e conflittuali, ma perché demolisce un pilastro importante su cui appoggiare il processo di cura del malato.
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