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Porte chiuse e schermi accesi

di Agostino Clerici

«Porte chiuse, schermi accesi». Potrebbe essere questo il motto delle Olimpiadi che si apriranno a Tokio il prossimo 23 luglio. Già sono in ritardo di un anno, e secondo gli scaramantici il numero dispari non porterebbe nulla di buono. Ma noi italiani siamo gli ultimi a credere a questo malaugurio della data, visto che anche gli Europei di calcio del 2020 si sono svolti nel 2021 e ci hanno portato bene, anzi l’ottimo. Certo, a Londra le porte erano semiaperte per gli stranieri e spalancate per i locali, mentre in Giappone sono chiuse per tutti, ma il successo dei Giochi non dipende dal numero degli spettatori in presenza, e quelli a distanza saranno comunque milioni, anzi miliardi.

Che cosa accadrà per quanto riguarda la sicurezza anti-Covid non è dato saperlo. Intanto la “bolla” del villaggio olimpico, che avrebbe dovuto essere inattaccabile, è già scoppiata prima ancora dell’inaugurazione, e quindici giorni di contatti tra atleti e accompagnatori (che pure sono immunizzati per l’85%) potrebbero incrementare il numero dei contagiati. In Giappone i Giochi non godono di grande favore popolare: la maggioranza dei giapponesi non li vuole e del resto solo il 16% della popolazione (120 milioni di abitanti) è completamente vaccinato. Il che è dovuto a ritardi nel programma di vaccinazione (inaccettabili in un Paese che ha rinviato i Giochi da più di un anno proprio a causa della pandemia), ma anche ad una cultura no-vax che è fortemente maggioritaria in Giappone.

Se si considera che l’embargo al pubblico straniero assesta un colpo mortale all’indotto turistico ed economico dei Giochi, si comprende l’ostilità al loro svolgimento da parte della maggioranza della popolazione. Ma questo non ha impedito al Comitato olimpico internazionale e soprattutto al premier nipponico Yoshihide Suga di confermare la manifestazione, giudicata troppo importante per il futuro stesso dei Giochi. Sembra quasi che l’Olimpiade di Tokio per una umanità smarrita costituisca un importante tassello del piano di vittoria morale sulle paure prodotte dalla pandemia. Un atto di coraggio e di consolazione, insomma, che, con un pizzico di azzardo, vuole salvare la possibilità per i popoli di incontrarsi per un evento che non è solo sportivo.

E se le porte sono tristemente chiuse, gli schermi sono doppiamente accesi. Gli atleti giocheranno davanti alla platea multimediale delle televisioni di tutto il mondo, e forse per loro sarà più difficile gareggiare senza un pubblico urlante (anche se gli organizzatori hanno assicurato la diffusione di applausi registrati). Sia chiaro: se anche le porte fossero state aperte, il numero di coloro che avrebbero raggiunto il Giappone in presenza sarebbe stato infinitamente più piccolo di coloro che i Giochi se li guardano comunque in televisione, comodamente seduti nel salotto di casa.

Ormai lo sport ha preso questa china e la pandemia ha solo affrettato e semmai radicalizzato questa tendenza alla spettacolarizzazione mediatica del gesto sportivo. Preoccupante è che questo immenso pubblico a distanza – soprattutto quello più giovane, che ha un approccio al consumo di sport completamente diverso da quello delle generazioni precedenti – sia sempre più individualizzato. I Giochi, pensati come occasione per fare festa insieme, rischiano di finire dentro un pulviscolo digitale.

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