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Presepi, immigrati e furbate ideologiche

di Agostino Clerici

Anche quest’anno in prossimità del Natale non sono mancate le polemiche sul presepe. Stucchevoli come sempre, perché nascono sul terreno dell’ideologia e dell’ignoranza. E fa ancora più specie trovare all’origine di queste polemiche preti o insegnanti, i quali dovrebbero avere il compito di istruire se non proprio di educare. Sono sempre più convinto che la libertà religiosa – un bene che deve essere garantito a tutti – si eserciti aggiungendo semmai un simbolo e non togliendone uno come il presepe, che non provoca alcun fastidio nemmeno a chi non è cristiano. Anzi, l’invenzione ideologica di un conflitto, che nei fatti è inesistente, è ancora più grave, perché va a manipolare bambini e ragazzi che, invece, sono ben contenti di condividere un simbolo così bello e creativo come il presepe.

Ma quando l’ignoranza sale in cattedra – o parla dal pulpito – il danno è ancora più grave, soprattutto se si brandisce il presepe come una clava per discettare di argomenti che sono d’attualità nel circo mediatico della politica nostrana. Quest’anno c’è chi ha voluto incrociare malamente il tema del presepe con quello degli immigrati. Una furbata ideologica per trasformare un simbolo culturale e religioso in uno strumento di consenso o dissenso politico. Una cosa che, sia chiaro, non mi impensierisce più di tanto, perché non funziona affatto e serve solo a segnalare quanta ignoranza vi sia in chi la utilizza, da una parte e dall’altra.

Il presepe si presta naturalmente a tante variazioni, più o meno azzeccate, e si può discutere su alcune attualizzazioni che da decenni imperversano nell’arte presepistica. La presentazione di Gesù come profugo fa parte dell’inventario moraleggiante che serve a legare più strettamente il Natale al presente. In fondo, la Natività rappresentata sul canotto è solo l’ultima versione dell’icona classica della povera famigliola rifiutata, che ha il suo fondamento in uno dei due racconti da cui è nato il presepe, quello dell’evangelista Luca (l’altro è il racconto dei Magi di Matteo). Poco più di mezzo versetto, in cui si dice che Gesù fu deposto in una mangiatoia – quindi presumibilmente in una stalla – «perché per loro non c’era posto nell’alloggio».

Con queste poche parole l’evangelista intendeva sottolineare che Gesù nasce nel disagio di una povertà comunque dignitosa (perché non mancano un padre e una madre) e nella distrazione dei suoi, quelli della sua gente. Giuseppe non è uno straniero che giunge da profugo in un’altra nazione, ma è un ebreo che torna nel suo paese natale, là dove è nato e cresciuto e – si presume – conosciuto. È a casa sua che non viene accolto! E questo è un dato evangelico su cui si dovrebbe riflettere di più: è l’indifferenza tra vicini il vero nodo del Natale, e spostare l’attenzione sui lontani può anche essere un ottimo espediente per non fare i conti con quelli della tua casa.

Forse proprio per questo gesto di inospitalità da cui si forma la scena, nel presepe c’è posto per tutti. Anche per il dormiglione, che dei distratti (o dei delusi) è l’incarnazione più eloquente. Com’è possibile essere intolleranti con un simbolo così tollerante come il presepe, in cui c’è posto anche per uno che dorme?

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