Categoria: Opinioni & Commenti

  • Como, la scoperta dell’America e il ritratto dimenticato

    Como, la scoperta dell’America e il ritratto dimenticato

    Lorenzo Morandotti

    Oggi, nella ricorrenza dell’anniversario della scoperta dell’America, l’occasione comasca per celebrare il “Columbus Day” potrebbe essere data da una visita (costa 4 o 2 euro a seconda dell’età) alla Pinacoteca di Palazzo Volpi in via Diaz nella cui sezione rinascimentale è conservato il ritratto di Cristoforo Colombo (nella foto sopra) di autore anonimo, databile attorno al 1516, argomento di discussione fra i dotti e ritenuto una delle immagini più attendibili del grande navigatore. Un tempo il Comune di Como era solito ricordare ai cittadini e ai turisti la presenza di questo documento storico e artistico che faceva parte della collezione di ritratti di uomini illustri dello storico Paolo Giovio, famoso letterato comasco al quale si deve tra l’altro l’odierno concetto di Museo. Per la ricorrenza di oggi però non è stato speso un rigo di comunicato stampa né via web. Una svista? Una dimenticanza? Per carità, il 1992 delle colombiadi è  lontano, e ci sarebbero ben altre priorità in agenda, anche sul solo fronte culturale. Però è un dipinto, quello di cui si parla, peraltro già andato più volte in tournée presso mostre dedicate a Colombo e alle scoperte del nuovo mondo. Scrisse Giovio nei suoi “Elogi” a proposito di Colombo: «Chi non si meraviglierebbe che un uomo con un viso così nobile e famoso per la grandezza unica del suo coraggio straordinario per la forza portentosa del suo ingegno smisurato, sia potuto nascere in un villaggio ligure rozzo e disprezzabile come Albissola vicino a Savona?». Perché allora Como si dimentica del suo Colombo, che varrebbe magari un poster, un foulard in seta comasca o analogo souvenir negli Infopoint, e si comporta da villaggio rozzo invece che da grande capoluogo di confine? Negli Usa è in corso da tempo una sorta di revisionismo attorno alla figura di Colombo e ai risultati, invero poco edificanti sul piano umano, della conquista dell’America da parte degli europei, colpevoli di avere sterminato milioni di persone inermi a suon di armi da fuoco e armi a loro ignote come il vaiolo. Si va dietro all’onda? Credo molto più banalmente  che sia un caso di poca memoria. Facciamoci un nodo al fazzoletto per l’anno prossimo, e finita lì.

  • Dopo il tempo dei set  ecco quello delle sale

    Dopo il tempo dei set  ecco quello delle sale

    di Marco Guggiari

    Sono i giorni del cinema a Como, non più delle riprese di Netflix girate in città e sul lago nel mese di agosto. In questo inizio di settembre prevale l’altra faccia della medaglia: le sale cinematografiche. Dal Gloria di Rebbio, presto in vendita; al Teatro Cressoni (poi Odeon e infine Centrale) di via Diaz, dove durante i lavori per costruire appartamenti e box è stata trovata un’anfora colma di monete d’oro. Parafrasando il vecchio film di Totò “Miseria e nobiltà”, si potrebbe dire al riguardo “Demolizione e tesoro”. Nel giro di vent’anni hanno chiuso in città tutti i luoghi storici dov’erano proiettate le pellicole, eccezion fatta proprio per il Gloria di via Varesina e per l’Astra di viale Giulio Cesare, entrambi finora faticosamente sopravvissuti e rilanciati con progetti intelligenti di nicchia. La contraddizione tra questa morìa e il “lago di Clooney”, appetibile a tanti set, per cui si discute periodicamente di Film Commission, vale a dire di un’autorità in grado di attrarre produzioni, è solo apparente. «È l’evoluzione, bellezza, e tu non puoi farci niente», direbbe forse (per restare in tema) Humprey Bogart. L’avvento dei multisala, delle visioni “fai da te”, l’ampliamento d’offerta di tutte le piattaforme tv, ha prodotto il grande cambiamento. Qualcosa di simile è avvenuto con le modalità di riproduzione della musica, o con i negozi di vicinato. Le offerte innovative e le mutate abitudini generano questi fenomeni. Nella stessa Como, in cui oggi enumeriamo la fine di tante sale storiche, oltre cento anni fa, agli albori della settima arte, ve n’erano molte di più, quasi una in ogni quartiere della città. I luoghi della magia cinematografica che sono fisicamente scomparsi, o che hanno perso le loro funzioni e ne hanno acquisite altre, pongono però una domanda di rimpiazzo culturale e ricreativo, pur nella metamorfosi dei tempi. E qui veniamo al dunque. Si è detto di Cressoni, Gloria, Astra. Ricordiamo anche l’Astoria di via XX Settembre (diventato multisala e poi condominio, dopo l’ultima proiezione nel 2009); il Plinio di viale Lecco, chiuso nel 2001 e i cui spazi sono oggi occupati da un ristorante; il Volta di via Dante, abbattuto negli anni ottanta per fare spazio a un parcheggio. Archiviamo tutto. Ma il punto è che sul Politeama di via Gallio non ci si deve rassegnare a una Ticosa che campeggia in centro ormai dal 2005. Il Comune l’ha ereditato, idee e progetti se ne sono affacciati tanti anche di recente. La realtà, per ora, è quella sotto gli occhi di tutti. Occorrono risorse che Palazzo Cernezzi non ha, ma una spinta più convinta, una partecipazione attiva per il recupero a nuove funzioni è un investimento possibile e necessario anche da parte del pubblico.

  • Coordinamento, questo sconosciuto

    di Lorenzo Morandotti

    Sinergia, lavoro di squadra, parola d’ordine mettersi in rete, coordinare gli eventi in un unico cartellone, sfruttare al meglio le occasioni, il motto sia “l’unione fa la forza”. Quanti slogan di questo genere sentite ripetere  da troppo tempo? Nell’ambito culturale sono ritornelli che circolano da anni. Quanto ci vorrà a capire che occorre  senso della responsabilità, prima di  spendere parole tanto impegnative? Prima di vederne svanire il senso, nel repertorio della retorica e delle frasi fatte di circostanza?

    Eventi che garantiscono al Lario sul fronte culturale e anche turistico visibilità anche oltre i confini nazionali  si stanno moltiplicando, dal cinema allo sport alla moda, ma non si va mai oltre il generico appello alla comunità d’intenti. Di conseguenza, i passi concreti che si vedono sono sporadici e evidenziano l’assenza di un programmazione a monte. Il tanto atteso cartellone degli eventi coordinato da una pubblica amministrazione, cittadina o provinciale, è ad esempio ancora un sogno. E quel che si fa di buono spesso ha strani intoppi. Lo segnalammo in estate e torniamo a farlo ora: la “pagina ufficiale della Città di Como” ossia il sito istituzionale visitcomo.eu non pubblica  più messaggi su Twitter da marzo, dopo aver lanciato nella rete oltre 3.200 “cinguettii”. La città si è cioè giocata l’opportunità di comunicare agli oltre 3mila follower eventi clou di quest’anno come il set di Jennifer Aniston per Netflix, l’evento di moda targato Dolce & Gabbana, il Giro di Lombardia di ciclismo. Altro esempio, meno lampante ma significativo. Il pubblico che il 6 ottobre  ha visitato l’inaugurazione della mostra “Cinque scultori comacini raccontano”  in  S. Pietro in Atrio,  non ha saputo se non in extremis che a poca distanza apriva un’altra mostra, in uno spazio privato in viale Lecco, con altri quattro scultori internazionali e un comasco. Si sa, il privato è ritenuto sinonimo di “a scopo di lucro”: guai combinare sacro e profano. Ma allora come mai mostre in spazi pubblici della  città sono spesso promosse  da gallerie private? C’è una logica o è far west?

  • A Como la storia merita di più Ravenna e Mestre insegnano

    A Como la storia merita di più Ravenna e Mestre insegnano

    di Marco Guggiari

    Dicevano gli antichi che la storia è maestra di vita e non c’è motivo di dubitarne. Nel sito del neonato M9, il Museo del Novecento inaugurato lo scorso primo dicembre a Mestre, c’è una bella definizione di questa iniziativa: “Far conoscere il passato, comprendere il presente e avere fiducia nel futuro”. Obiettivi importanti e per nulla scontati. Como dovrebbe farli propri, in prospettiva, aggiungendovi uno scopo pratico e utilitaristico: l’uso della cultura, in senso ampio, per corroborare la famosa vocazione turistica implicita nella bellezza dei luoghi. Ne scriviamo perché, oltre a Mestre, anche Ravenna ha investito su questa scommessa. A Classe, vicino alla città romagnola, dove sorge la Basilica di Sant’Apollinare, famosa per i suoi splendidi mosaici, lo stesso primo dicembre è stato tagliato il nastro del Museo Classis, che ospita la storia locale. Uno zuccherificio dismesso di fine ’800 è stato recuperato a tal fine. Ravenna fu il cuore di tante civiltà e ospitò un grande andirivieni di popoli, ma Como avrebbe a sua volta le carte in regola per qualcosa di simile. Ricordiamo poche cose, tra le tante: la sua antica origine romana, Cecilio, i suoi Plinii, Alessandro Volta, il Cardinale Tolomeo Gallio, la sua epopea della seta, il Razionalismo in architettura e l’astrattismo nella pittura… Tutti segni distintivi, potenzialmente in grado di attirare, insieme con la formazione del lago e primari monumenti civili e religiosi, un gran numero di studiosi e di studenti e massimamente di turisti. Come fare però? Le due esperienze di Mestre e di Ravenna, operative da nove giorni, insegnano molto. Primo dato: partire da lontano. Nella città attigua a Venezia hanno iniziato nel 2002; nel capoluogo romagnolo nel 2010. Primo insegnamento: le cose ambiziose richiedono tempo, ma non è questo il problema, visto che qui da noi siamo abituati a tempi lunghi, anche doppi e tripli e più, rispetto a quanto previsto… Secondo dato: le risorse necessarie. Sono ingenti. Ravenna ha avuto bisogno di 22 milioni di euro; Mestre addirittura 110. Entrambe le città, però, hanno usufruito del concorso di Banche e Fondazioni danarose e di istituzioni pubbliche. Secondo insegnamento: servono programmazione, condivisione e alleanze strategiche. Terzo dato: la popolazione, come base di partenza. Ravenna ha 159mila abitanti; Mestre 176mila. Ognuna delle due, grosso modo, il doppio di Como. Ma Como ha intorno paesi, luoghi, esperienze che possono integrare i suoi circa 83mila residenti. Terzo insegnamento: rilanciare l’idea di una Grande Como. Sono suggestioni. Resta lo spunto di un possibile museo moderno, multimediale, un’officina del sapere tecnologica e interattiva. Ravenna lo ha creato trasformando un grande luogo di lavoro in grande luogo di cultura. Mestre ha fatto altrettanto recuperando un ex convento, ristrutturando un edificio direzionale degli anni ’70 e costruendo ulteriori nuovi spazi. Ditemi che Como non ha archeologia industriale (la Santarella, per dirne una), o edifici attualmente privi di funzioni e tali chissà per quanto tempo ancora (i padiglioni più vecchi dell’ex Sant’Anna) e vi dirò che siete distratti. Nel nostro piccolo, potremmo. Basta seguire le istruzioni.

  • Aliquota fissa e ingiustizia certa

    Aliquota fissa e ingiustizia certa

    di Giorgio Civati

    Quanta confusione in tema di tasse. Anzi, quanta ingiustizia: se, infatti, pagare allo Stato una quota dei propri guadagni ha una logica indiscutibile, avendo in cambio tutta una serie di servizi che solo lo Stato, appunto, può gestire, erogare, pagare, il peso delle imposte in Italia è da decenni esagerato, mentre la “macchina” della riscossione aggiunge caos, difficoltà, norme incomprensibili o quasi. Di conseguenza, ogni passo verso una semplificazione o una riduzione delle tasse dovrebbe essere ottima cosa. E invece no, non sempre. Prendiamo la flat tax: sbandierata, usata come tema elettorale, promessa e poi rimandata, la tassa fissa, o piatta che dir si voglia, pare bellissima, come diceva un ex ministro delle finanze riguardo l’argomento. Una sola aliquota, fissa, certa.

    Con pochi o nessun calcolo da fare, niente deduzioni e detrazioni, giustificativi, senza calcoli che si rischia di sbagliare. Eppure anche dietro una simile premessa si nasconde, e neanche tanto, l’ennesima ingiustizia. Quella che sta per debuttare è una imposta fissa del 15% che sostituirà Irpef, Irap e addizionali varie, per professionisti e piccole aziende sotto i 65mila euro di ricavi annui. Circa 2,5 milioni di contribuenti. E dal prossimo anno la flat tax al 20% si estenderà a chi fattura tra i 65 e i 100mila euro. Tutto bene per i diretti interessati: un ipotetico professionista che fatturerà, poniamo, 30mila euro pagherà 4.500 euro di tasse. Il 15%, facile e conveniente. Un bel vantaggio visto da qui. Un’ingiustizia, però, in generale. Sì, perché il dipendente da 30mila euro continuerà a pagare l’Irpef, cioè la tassa sui redditi delle persone fisiche, secondo le solite aliquote: 23% e poi 27% e infine, per un pezzetto di guadagni, il 38%. In totale, 7.720 euro. Ben più del libero professionista o del piccolo imprenditore.

    A parità di guadagni, una fregatura per milioni di dipendenti a reddito fisso e un regalo per i piccoli lavoratori autonomi, le micro aziende, i professionisti. Se l’idea era buona, la realizzazione ci pare decisamente un’altra stortura. Tanto che, anche a Como, molti si interrogano sull’opportunità o meno di restare dipendenti o “mettersi in proprio”. Mantenendo lo stesso rapporto con lo stesso studio professionale o azienda, non più però come dipendenti ma come collaborazioni a partita Iva. Per pagare meno tasse rientrando nell’imposizione al 15%. Ma così facendo si perdono tutele, pensione, malattia e altre caratteristiche del lavoro dipendente. A spanne, un dipendente pagherebbe il 18% in più del proprio datore di lavoro: tanto, tantissimo. Ma quanto “vale” un contratto con assunzione magari a tempo indeterminato? E che senso ha dal punto di vista sociale e generalizzato questa agevolazione a pochi? Como e l’Italia avrebbero il diritto di pagare meno tasse. Ma probabilmente non in questo modo.

  • Anziani stanchi di vivere e femminicidi silenziosi

    Anziani stanchi di vivere e femminicidi silenziosi

    di Mario Guidotti

    Ci sono femminicidi che passano inosservati, che si fa
    persino fatica a definire tali, ma che altro non sono, omicidi di genere, anche
    se stavolta non sono uomini che odiano le donne, ma forse non sanno come
    amarle, fino in fondo. Si trovano tra le cronache tristi. Anziane coppie che si
    uccidono insieme in età avanzata, per malattia, per disperazione, in realtà
    solo per solitudine.

    È successo anche le settimane scorse: due coppie di coniugi
    nel ricco Trentino ed in Emilia, quindi non storie di degrado, neppure di
    povertà. Ma perché femminicidi? Perché alla fine, entrambi consenzienti o no, è
    lui che uccide lei, salvo poi rivolgere l’arma contro se stesso.  Beh, si dirà, l’uomo possiede le armi, oppure
    anche che il maschio trova il coraggio per farlo. Ma l’analisi non è completa,
    anzi è superficiale. Perché a ben guardare ci vorrebbe più coraggio ad andare
    avanti, nella malattia, nel dolore, nell’invalidità. La verità è che mai la
    moglie uccide il marito anziano e malato e poi si toglie a sua volta la vita.
    La donna resiste, la donna si prende cura, dà tutta se stessa, non scappa.

    A proposito di abbandoni, che sono tra le peggiori miserie
    che si vedono in questo lavoro, a volte i padri non resistono alle gravi
    disabilità dei figli, magari congenite o dopo un grave trauma o una severa
    malattia, e vanno via da tanto dolore, mai lo fanno le mamme. Ma stiamo andando
    fuori tema. Vero è che agli uomini mancano i sentimenti ed i gesti necessari
    nelle fasi più avanzate delle malattie, che sono poi quelli più richiesti: il
    lavare, il pulire, il nutrire, il prendersi cura dei bisogni più basici
    insomma. La donna possiede queste capacità. Forse non è un caso che il buon Dio
    abbia scelto lei per procreare.

    L’altro dato che non può sfuggire è la voglia di farla
    finita di questi anziani, e forse non solo di quelli che portano a termine
    gesti tanto clamorosi. La quotidianità è fatta di vecchi che si lasciano
    andare, che non assumono più le cure, che non mangiano più, che non parlano
    più, che vogliono spegnersi nell’ombra.

    È solitudine? Forse, ma non solo. Ci sono anziani che anche
    vivendo soli sono brillantissimi ed altri che pur con il coniuge non ce la
    fanno ad accettare il degrado fisico. È paura allora forse? E di che cosa, di
    morire? Allora perché andarci incontro più velocemente? Della malattia,
    dell’invalidità? Gli ospedali traboccano di malati , oncologici e non solo, che
    firmerebbero  e pagherebbero per
    invecchiare, per veder crescere i propri figli e nipoti. Perché dopo una vita
    piena molti non accettano il declino? Forse le risposte verranno dalla
    neurobiologia, cioè da scienze che studiano quali cellule, quali molecole siano
    veramente vitali, e quali ci portano invece a morire anche prima del tempo.

    Comunque sia, una lezione che ci lasciano queste storie
    tristi è l’importanza del dono di ogni singolo giorno vissuto in salute ed in
    pienezza. In troppi passano l’esistenza a lamentarsi della quotidianità, della
    solita vita, salvo poi di colpo accorgersi che non era così male.

  • Chicane di viale Masia, dopo la sicurezza decoro

    Chicane di viale Masia, dopo la sicurezza decoro

    di Marco Guggiari

    In Italia nulla è più definitivo del provvisorio e  Como non fa eccezione. Un esempio per tutti: il “girone” viabilistico intorno alle mura della città. Introdotto coraggiosamente in via del tutto sperimentale nel 1987, è tuttora in vigore. Funziona e, salvo soluzioni più efficaci, tutte da definire nel futuro Piano del traffico, è destinato a durare.

    In viale Masia, dopo una preoccupante serie di incidenti con investimenti di pedoni, nello scorso mese di febbraio è stata realizzata una “chicane” che costringe le auto a rallentare e quasi a fermarsi in corrispondenza dell’attraversamento pedonale. Lì, all’altezza dello spartitraffico, un sole assassino, complice – è stato detto da qualcuno – lo sfoltimento delle piante, rende difficile la visuale. E in alcune ore del giorno il rischio di schianti è elevato. Bene ha fatto, ovviamente, il Comune a intervenire. Tanto più che il problema esisteva da tempo e in passato si è cincischiato ipotizzando, nell’ordine, la posa di un semaforo e il rialzo della strada. Senza nulla di fatto.

    Il problema nasce dal mancato passaggio successivo: la sistemazione della viabilità, recependo il buon esito dell’accorgimento. L’impegno era procedere in tal senso entro l’estate. Poi è stato spiegato che la zona di viale Masia rientra in un progetto di pista ciclabile finanziato dalla Regione Lombardia, che cambierebbe l’assetto della sede stradale e delle attuali corsie. Quindi, si sarebbe aspettato a mettere tutto definitivamente in ordine. Risultato: chi percorre quell’arteria, vale a dire la stragrande maggioranza di coloro che entrano a Como da piazza Santa Teresa, si imbatte in una decina di new-jersey bianchi e rossi, in qualche sacchetto di sabbia e in un paio di cavalletti. Il buon senso ci dice che la priorità è stata soddisfatta: i pedoni attraversano la strada senza essere investiti e questo è, di gran lunga, il risultato sperato. Ma lo stesso buon senso dice anche che ricavare una pista ciclabile lì richiederà ancora molto tempo. Così tanto da consigliare di dare un assetto più dignitoso all’ottima soluzione anti-incidenti trovata. Perché anche l’occhio vuole la sua parte e il senso di precarietà non giova. Così come non piacciono – e rappresentano un pericolo – i paletti di cemento, segnalati ieri da questo giornale, rimasti a testimoniare le barriere protettive ammalorate ai bordi di via Grandi. E meno male che questi giorni precedono il Giro di Lombardia. Così, quanto meno, qualche strada del capoluogo è tornata d’incanto come il fondo di un biliardo. Buon per noi che ogni tanto c’è un’occasione che supera i problemi finanziari e salta a piè pari i tempi burocratici garantendoci il decoro e la funzionalità persi di vista.

  • Cinema, sale pubbliche e visioni private

    Cinema, sale pubbliche e visioni private

    Di Agostino Clerici

    Confesso di non essere un cinefilo. È da un po’ di anni che non entro in una sala cinematografica. E non sono nemmeno abbonato ad alcun canale tematico che manda in onda film on demand. Guardo saltuariamente qualche pellicola trasmessa in chiaro dalla televisione generalista. Scrivo da non esperto di cinema, dunque.

    Immagino che anche in questo campo, però, a guidare le scelte di un carrozzone immenso e variegato ci siano i soldi. E non lo dico da scandalizzato. La cultura ha bisogno di danaro per sopravvivere e, invece, è la cenerentola e riceve le briciole. Il problema, semmai, è stabilire dove finiscono gli affari e dove inizia la cultura, e il confine non è sempre così facile da individuare.

    Alla recente Mostra del Cinema di Venezia il premio più prestigioso – il Leone d’Oro – è andato ad un film in bianco e nero del regista messicano Alfonso Cuaròn. Mi dicono che non è stata una sorpresa e che il premio è stato assegnato all’unanimità dai nove giurati. Eppure qualcuno si è lamentato. Sono tre associazioni del settore: Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), Fice (Federazione Italiana Cinema d’Essai) e Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema).

    Non hanno espresso riserve sull’alta qualità del film “Roma”, ma sui criteri con cui verrà distribuito e potrà, quindi, essere fruito dal grande pubblico. Le tre associazioni hanno espresso la loro contrarietà circa la scelta di aver inserito nel concorso di Venezia alcuni film (tra cui quello vincitore del Leone d’Oro) non destinati alla visione in sala, in quanto appartenenti alla piattaforma Netflix «che con risorse ingenti – così recita il comunicato – sta mettendo in difficoltà il sistema delle sale cinematografiche italiane ed europee».

    Le tre associazioni vorrebbero che la Mostra del Cinema di Venezia – come già ha fatto il Festival di Cannes – non accetti film in concorso che appartengono a piattaforme digitali e che comunque un film debba essere destinato alle sale cinematografiche e solo dopo tre anni possa approdare in streaming. Mi pare di sentire la eco di una eguale polemica che qualche anno fa attraversò il mondo del calcio, quando le televisioni giunsero a svuotare gli stadi. Magari qualche valore vagamente culturale c’è in queste rivendicazioni. Magari è giusto invocare una regolamentazione circa i tempi dello streaming. Ma… tu chiamala, se vuoi, nostalgia. E, comunque, è una guerra di soldi e privilegi tra chi vorrebbe ancora le sale cinematografiche piene e chi insegue il pubblico nella inarrestabile privatizzazione del consumo digitale.

    Hanno forse qualche ragione le tre associazioni, ma non ha torto il direttore della Mostra Alberto Barbera, quando dice che «bisogna guardare avanti e prendere atto delle nuove realtà come Netflix, Amazon e altri operatori analoghi che verranno». Siamo al solito problema: la rivoluzione digitale non può essere certo arrestata, ma deve essere governata e i fruitori devono essere educati. Purtroppo abbiamo tante persone che comandano e tante che protestano, ma poche sono in grado di governare e hanno voglia di educare.

  • Comaschi con le torce nelle vie troppo buie

    Comaschi con le torce nelle vie troppo buie

    di Marco Guggiari

    Li ho visti. Davvero. Comaschi muniti di torce per muoversi nelle vie della città prive o quasi di illuminazione. Avrei voluto fotografarli, ma ero in auto e, a mia volta, prestavo la massima attenzione nel buio pesto della zona, in prossimità di un passaggio pedonale appena intuibile. Non è un’iperbole. Pedoni a rischio investimento, o inciampo e rovinosa caduta lungo marciapiedi scuri e dissestati. È così da anni. Li ho visti con le pile, educatamente in fila indiana. Non erano runner o biker, ma normali pedoni. Non inscenavano una manifestazione di protesta. Tenevano soltanto alla loro incolumità. A Como sta diventando il nuovo fai-da-te della visibilità: se i lampioni non vengono a me, mi travesto io da lampione. Provate voi, mi rivolgo ai pochi che già non l’hanno sperimentato, a muovervi di sera, o anche soltanto all’imbrunire in questa stagione dalle giornate sempre più corte, ad avventurarvi in qualche contrada. Per esempio, via Gallio, dove l’illuminazione è proprio sbagliata. Il lato sinistro, scendendo dalla stazione San Giovanni, è luminoso e sfrutta anche la luce dei lampioni del lato destro, i cui lumi sono inclinati in modo da lasciare invece completamente invisibile il settore perpendicolare a sé. Oppure hanno lampade nascoste dalle fronde degli alberi, o ancora lampadine dal bagliore fioco. Con il risultato che lo spazio dov’è ubicata la fermata dell’autobus è nero come la pece. Un altro caso, in altra zona della città, è via Salvo D’Acquisto. La strada che costeggia un lato del Comando provinciale dei carabinieri e la chiesa di San Giuseppe in Valleggio è  una vera incognita. Qui sembra avverarsi la guida a fari spenti nella notte della celebre canzone di Battisti. E poveri pedoni, pur guardinghi ai due margini del percorso. Potremmo proseguire, ma il punto è un altro. La città al buio, come le buche nell’asfalto, è ciò che più preoccupa, fa arrabbiare, scandalizza i comaschi. Possibile che non li si possa accontentare almeno in questo?

    Pare già di sentire l’obiezione: il Comune eroga 400mila euro all’anno a Enel SoLE sulla base di un accordo ponte tra l’amministrazione comunale e la società stessa, in attesa di acquisire la rete; i cittadini possono segnalare i guasti al numero verde di Enel SoLE, o all’Ufficio relazioni con il pubblico di Palazzo Cernezzi. Tutto vero, ma non basta. I problemi restano. Bisogna uscire dagli uffici e girare per le strade. Bisogna usare gli occhi: l’assessore, il funzionario, il tecnico di Enel SoLE non attendano le segnalazioni. Passeggino, osservino, si rendano conto. Intervengano. Ne avrebbero merito, primi nella storia delle giunte comasche dal Duemila a oggi. Stupirebbero tutti. Per efficienza ed efficacia. Queste sconosciute.

  • Como città della seta. Non dimentichiamolo

    Como città della seta. Non dimentichiamolo

    di Giorgio Civati

    Dire che è passato inosservato probabilmente è troppo, eppure il congresso dell’International Silk Union svoltosi a Como la settimana scorsa non ha avuto grande rilievo. Attenzione da parte degli addetti ai lavori ce n’è stata, specie di quelli istituzionali, ma al di fuori del “giro” poco altro. Eppure i temi erano importanti, fondamentali per il territorio che sull’industria tessile ancora basa molta della ricchezza prodotta, del benessere non solo delle industrie ma anche delle famiglie. Il filato di seta, infatti, è pressoché esclusivo monopolio cinese come provenienza. E monopolio o quasi, come produzione di tessuti, lo è anche per il distretto comasco: qui, sul Lario, si stima che vengano realizzate il 95% delle stoffe in seta poi destinate al mondo intero. Eppure, la città della seta pare dare poca attenzione al settore, al fornitore di materia prima, forse anche all’industria tessile locale. È vero, ci sono fior di imprenditori che si impegnano anche a livello associativo, dal Gruppo tessile di Confindustria Como all’Ufficio italiano seta, esperti e funzionari che seguono le problematiche di un mondo tanto piccolo all’interno del tessile/abbigliamento mondiale quanto difficile, particolare. E, però, nei decenni il tessile e il serico sembrano avere perso attenzione, fascino, considerazione. Una situazione che peggiora con quelle riflessioni che vorrebbero il tessile in declino, anzi forse già morto, accompagnate da elogi ad altre attività, per esempio il turismo. Come se un comparto fosse in competizione con l’altro. Del tessile, invece, bisognerebbe avere la massima considerazione. Nonostante le crisi, anche eccellenti, gli ondeggiamenti della moda e dei fatturati e un mercato internazionale sempre più difficile,  il distretto tessile comasco è una realtà sempre importante. Magari a volte affaticata, ma viva. Con migliaia di addetti, centinaia di aziende. Dai big a quelle artigianali, tutte insieme a fare del territorio una filiera che,  proprio in quanto tale, permette ancora di fare la differenza. Mentre si osannano, giustamente, i miliardari orientali che scelgono di sposarsi sul lago di Como, attori come George Clooney che hanno fatto del Lario il loro buen retiro di lusso, non dimentichiamo un tessile di fasti passati che è anche presente importante. Le bellezze della natura ci sono state regalate dal caso o dal buon Dio, ognuno la pensi come vuole. L’industria tessile invece se la sono inventata generazioni e generazioni di comaschi ed è un patrimonio non solo delle industrie locali di settore ma di tutti. Con un Setificio che proprio quest’anno celebra il secolo e mezzo di storia e suscita di nuovo interesse e apprezzamenti, la Como di Alessandro Volta, di Clooney e Jennifer Aniston, degli hotel di lusso celebrati nel mondo e del lago resta anche – soprattutto – la città della seta.