Categoria: Opinioni & Commenti

  • Dal sequestro al museo, storie di arte liberata

    Dal sequestro al museo, storie di arte liberata

    di Lorenzo Morandotti

    Diamo, come è giusto, anche buone notizie,  esemplari, che possano sottolineare l’evidenza del bene compiuto (quanto a  banalità del male siamo già al completo grazie)  e invogliare  a compierne ancora di più.

    Siamo una terra di confine, ricca tra l’altro di collezioni d’arte; dove spesso transitano, magari  destinate a qualche segreto bunker elvetico o di altro Paese, opere di maestri contemporanei o del passato la cui tracciabilità rimane  zona grigia. La frontiera italo-svizzera, lo ha evidenziato  il pregevole lavoro investigativo del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri di Monza, è uno dei margini del perimetro nazionale più  permeabili rispetto al fenomeno dei traffici illeciti (con varie gradazioni di gravità) di opere d’arte.

    Ebbene, è in corso a Milano, e lo documenta un bel catalogo illustrato edito da Scalpendi, una mostra a ingresso libero (prorogata visto il successo fino al 2 dicembre) che testimonia un fatto altrettanto certo, ossia che la legalità non si limita a essere un concetto astratto, auspicabile nelle aule di filosofia del diritto e magari anche nei tribunali ma  è qualcosa che si può e si deve ottenere come strumento di convivenza civile quotidiana, come peraltro ribadiscono in queste ore le demolizioni romane agli immobili illeciti (e pacchianamente arredati) del clan Casamonica. La mostra in questione si intitola Arte liberata dal sequestro al museo. Storia di una collezione confiscata in Lombardia a cura di Beatrice Bentivoglio-Ravasio.

    Di cosa si tratta? Nell’appartamento nobile di Palazzo Litta a Milano, sale peraltro solitamente non visitabili  e questo è un ulteriore motivo di attrazione, la mostra permette di riflettere su un tema quantomai controverso e attuale come quello del riutilizzo sociale dei beni confiscati.

    La mostra espone per la prima volta al pubblico 69 opere di arte contemporanea (con nomi eloquenti: Vasarely, Christo, Vedova) sequestrate dieci anni fa  a un’unica persona a Milano nell’ambito di un’indagine per gravi reati di natura finanziaria.

    In seguito sotto il controllo dello Stato la collezione è stata studiata e catalogata. Tra i pezzi, un ritratto di Andy Warhol dello stilista Gianni Versace, Vip dell’alta moda legato storicamente al Lago di Como.

    La mostra andrà in tournée: Brindisi  la ospiterà nella bella cornice di Palazzo Granafei Nervegna  dal 15 dicembre e altre città si stanno facendo avanti. Perché non pensare a qualcosa di analogo anche sul Lario, sul confine colabrodo dove operano gli spalloni dell’arte? Sarebbe un ulteriore segno di rivincita  da parte dello Stato.

  • Dispersione scolastica e qualità dello studio

    Dispersione scolastica e qualità dello studio

    di Adria Bartolich

    Torniamo a parlare di dispersione scolastica e del raffronto tra il nostro sistema scolastico e quello degli altri Paesi europei. In Europa mediamente abbandona gli studi prima del tempo l’11,5% del totale dei ragazzi.  Il numero più alto  di abbandoni si registra in Islanda, oltre il 21%  che è una percentuale considerevole;  quello più basso in Croazia, dove il numero di abbandoni si avvicina allo zero. L’Italia, pur attestandosi al 14,2%, ha migliorato notevolmente il dato  che è passato da quasi il 20% ai livelli attuali  nell’ultimo decennio. Significa che tanto lavoro è stato fatto per recuperare il gap tra noi e il resto d’Europa,  anche se attestarsi al quinto posto nella graduatoria dei Paesi membri  non è certamente un  risultato soddisfacente. Certamente stabilire quali siano le cause di un tasso di dispersione, che seppur notevolmente corretto rimane ancora alto, non è cosa semplice. Se però si intreccia con altre rilevazioni che abbiamo a disposizione, qualche riflessione di interesse, pur  senza cadere nel meccanicismo, si può comunque fare. Mi riferisco soprattutto a un altro dato interessante che riguarda il numero di ore che gli studenti italiani impiegano settimanalmente nello studio . Spaventosamente alto: 50 ore tra scuola, studio, compiti a casa  e ripetizioni private. Mediamente  dieci ore in più di quello che è l’orario di un lavoratore a tempo pieno in un’industria. Perfino più dei giapponesi, noto popolo di stakanovisti, con 41 ore. È moltissimo.  Se togliamo alle  24 ore di una giornata almeno 8 ore di sonno e  3 ore e 1/2 per consumare i pasti, tolte le 10 ore di studio rimangono solo 2 ore e 1/2 per lo svago o il relax. Troppo poche per quell’età.  Dispersione a parte si potrebbe sostenere che, però, i nostri studenti siano molto più preparati dei loro colleghi europei perché molto più impegnati seriamente nello studio. Errore. Secondo una rilevazione Ocse mirata principalmente a capire se alle ore di studio corrispondesse un miglior rendimento scolastico, alla fine del test  i ragazzi finlandesi (che hanno il sistema scolastico considerato il migliore d’Europa) con una media di 14 ore in meno di studio settimanali rispetto ai ragazzi  italiani, hanno ottenuto  una media di 50 punti in più, seguiti dagli inglesi e dai tedeschi con 30, portoghesi con 20, francesi con 15 e spagnoli con 10.  Vuol dire che non si deve più studiare? No, bisogna studiare semplicemente meglio e tenere nella debita considerazione che al livello degli studi fatti dai genitori  corrisponde spesso la capacità dei figli di andare bene a scuola. Chiedere a un ragazzo che ha scarse possibilità di essere seguito a casa semplicemente di studiare il doppio (studiano infatti più ore gli studenti che vanno peggio)  equivale ad aumentare il senso di frustrazione e di sconfitta nei ragazzi che prima o poi rischiano semplicemente  di abbandonare prima gli studi, mentre organizzare due o tre ore di studio  fatte bene e a scuola, seguiti da qualcuno, possono essere la soluzione.

  • Economia e finanza, siamo poco educati

    Economia e finanza, siamo poco educati

    di Giorgio Civati

    Vi mettereste al volante di un’auto senza saperla guidare? Vi buttereste in piscina o in mare senza saper nuotare? Probabilmente no, quasi sicuramente no. Eppure, al di là di esempi piuttosto esagerati come questi, molti di noi compiono quotidianamente azioni altrettanto avventate. In tema di soldi, investimenti, economia e finanza. E non è una esagerazione parlare di economia e finanza anche per le persone qualunque, perché anche loro, anche noi, siamo alle prese con scelte magari banali (il mutuo per la casa, la forma d’investimento di pochi o tanti risparmi, la scelta o meno di una pensione integrativa) che sono, appunto, economia e finanza. Argomenti da affrontare con cautela, con un minimo di conoscenza e una buona dose di dubbio per evitare fregature e danni.

    Anche senza essere milionari, un po’ di informazione dunque servirebbe a tutti. Se ne è parlato in tutta Italia e anche a Como proprio in questi giorni: quella che si chiude oggi è infatti la settimana dell’educazione economica e finanziaria, iniziativa giunta alla sua seconda edizione per volere del ministero dell’Economia e della Finanza e della Consob, la società che regola e gestisce la Borsa, e proprio sul Lario una serie di incontri e appuntamenti dovrebbe avere stimolato interesse. Dovrebbe, però, forse, magari, chissà: ci vediamo lontani dal problema, o magari crediamo che le chiacchiere da bar siano sufficienti a farci capire il necessario, o ancora che il bancario o il consulente siano abbastanza affidabili. E invece non è proprio così, non è sempre così. Informarsi, dubitare, chiedere e approfondire sono le “parole d’ordine” che spesso dimentichiamo.

    È anche vero che veniamo da decenni di incoscienza, magari fortunata. Anni in cui nessuno pensava potesse fallire una banca; nessuno ipotizzava che una obbligazione, magari di una società famosa, in realtà fosse un prestito a quella stessa azienda che poteva anche dichiarare insolvenza; pochi sapevano che più è alto il rendimento di un investimento e più elevato è anche il rischio.

    Elsa Fornero – potrà piacere oppure no per la riforma delle pensioni varata col governo Monti nel 2012 ma, come economista, è una che ne capisce – a Como lunedì sera ha ricordato che esistono fasi nella vita in cui rischiare di più e altre che richiedono prudenza. Ecco, acquistare azioni di Banca Etruria alla soglia della vecchiaia, magari impegnandoci tutta la liquidazione, è un’operazione accorta? Colpa di bancari e consulenti, certo, ma anche di chi si è fatto convincere. Per poca conoscenza, probabilmente, e quindi si torna all’inizio: anche sui soldi, pochi o tanti che siano, per gli investimenti o i debiti, per tutti noi, capirci qualcosa è fondamentale. Che riguarda il benessere dell’individuo e della famiglia, oggi e soprattutto domani. Con risvolti anche politici, perché reddito di cittadinanza e pensioni altro non sono che un modo per gestire i soldi. Dello Stato, che però alla fine sono sempre i nostri.

  • Alì il comico e i due assessori

    Alì il comico e i due assessori

    di Dario Campione

    Qualcuno ricorda l’esilarante figura di Mohammed Saeed al-Sahaf? Era il ministro dell’Informazione di Saddam Hussein e la stampa lo aveva soprannominato Alì il comico per le sue irresistibili conferenze stampa convocate durante la seconda guerra del Golfo. Indimenticabile la dichiarazione sulla sconfitta ormai imminente dell’esercito americano pronunciata mentre alle sue spalle sfilavano in parata i carri armati statunitensi, entrati trionfalmente a Baghdad senza più incontrare alcuna resistenza. L’ostinazione con cui la giunta di Como insiste nel giudicare «normale» il collasso del traffico di sabato scorso è degna di Alì il comico. Che non avrebbe saputo fare di meglio, nemmeno parlando alla stampa  avvolto in una nuvola di gas di scarico. Ora, nessuno dotato di raziocinio a livelli elementari comprende l’atteggiamento del Comune di Como, questo negare l’evidenza che espone l’esecutivo a un giudizio implacabile. Le spiegazioni possibili sono due. La prima è la cecità. Ma, anche per rispetto delle persone colpite da una malattia così crudele, non è da prendere in considerazione. La seconda è la cecità politica. E qui il discorso si fa diverso. È del tutto evidente che il caos di auto in Convalle è figlio di una scelta precisa – scelta politica – compiuta dal Comune all’atto della formazione del bando per l’assegnazione degli eventi di fine anno. Sarebbe stato necessario in quel momento obbligare i concorrenti a predisporre (o a finanziare) un serio piano del traffico da applicare nelle giornate più critiche. L’esperienza, ironizzava Gramsci, insegue l’uomo invano. Perché l’uomo è più veloce. Soprattutto quando si è testardamente fissato un’idea in testa. L’inferno di auto in coda non è una novità. Si ripete più o meno puntuale ogni anno. Non solo: Como è, e resta, un catino di fondovalle, dal quale è complicatissimo entrare e uscire. I dati essenziali sono tutti sul tavolo. Fare finta di non vederli è un clamoroso passo falso. Anche la risposta dell’assessore Negretti al Pd – ovvero, chiedere che cosa avesse fatto il centrosinistra durante il suo mandato per risolvere il problema – non regge. Perché dagli errori degli altri, dalle loro mancanze, si deve saper trarre una lezione. Soprattutto quando si accetta l’onere di governare una città. Il successo di una manifestazione, poi, non può essere un alibi. Al contrario: di fronte alla confusione e al totale disordine è un’aggravante. Poiché nessuno organizza qualcosa perché faccia fiasco. E tutti sperano, quando aprono un locale, che questo si riempia. Tranne decidere saggiamente, a un certo punto, di chiudere le porte.

  • Alternanza scuola-lavoro, strumento da incentivare

    Alternanza scuola-lavoro, strumento da incentivare

    di Adria Bartolich

    L’alternanza scuola lavoro  ha avuto una storia abbastanza travagliata.  Istituzionalizzata dalla legge sulla “Buona scuola” varata dal governo Renzi, è stata oggetto spesso  di critiche  e ostilità.

    Certo, la sua applicazione non è stata priva di intoppi, non siamo in Germania dove il cosiddetto sistema duale funziona da tempo e la dimensione delle aziende, in gran parte medio-grandi,  facilita l’inserimento dei ragazzi; la nostra alternanza scuola-lavoro è stata  regolamentata a  pieno titolo  solo tre anni  fa e  deve tenere conto di un tessuto produttivo fatto in maniera preponderante di piccole e piccolissime imprese, della stanchezza dei docenti italiani che in meno di vent’anni si sono visti calare sulla testa  ben quattro riforme –  Berlinguer, Moratti, Gelmini e Renzi – ed infine deve fare i conti  non solo  con la  resistenza culturale della nostra tradizione umanistico-mediterranea  nei confronti del  sapere tecnico-scientifico,  ma anche  con una disparità e una disomogeneità delle situazioni  sul territorio nazionale.

    È  un fatto che  ci siano state applicazioni distorte dell’alternanza.

    In molti casi l’attività  svolta in azienda non aveva nessuna attinenza con la programmazione didattica e in molte scuole, soprattutto in aree in difficoltà sul piano economico, l’alternanza è stata solamente simulata, perciò privata di quel carattere esperienziale che la rende invece interessante per l’apprendimento.

    In molte altre situazioni, però,  l’alternanza ha funzionato, così come il rapporto con le imprese. Sono sorti coordinamenti anche di carattere istituzionale, tra Camere di Commercio, associazioni datoriali e sindacali, Province ed enti locali,  proprio per regolamentare e seguire meglio le esperienze sul territorio, ricavando dati statistici ed elementi per migliorarne l’applicazione.

    Certo, si tratta spesso di condizioni che  si sono create nel tempo, addirittura precedenti alla “buona scuola”,   ma se si crede che il rapporto tra mondo della scuola e imprese debba essere rafforzato, la scelta del governo di ridurre drasticamente i finanziamenti per l’alternanza  rischia di compromettere  un’esperienza che si stava, seppur faticosamente, affermando sul territorio, anche se in modo disomogeneo,  e di diminuirne la portata e l’efficacia  didattica; spesso, infatti, rappresenta una possibilità, per i ragazzi che hanno più difficoltà nello studio, di dimostrare invece abilità e competenze che la scuola, per come è strutturata, non riesce a identificare, ma nemmeno  a fare emergere e sviluppare.  Senza forzature, naturalmente, ma laddove si  verificassero le possibilità di farlo, l’alternanza  andrebbe incentivata .

  • Bambini, ceffoni e vuoto educativo

    Bambini, ceffoni e vuoto educativo

    di Adria Bartolich

    Il vicepresidente del consiglio Matteo Salvini, commentando un fatto di cronaca,  ha recentemente dichiarato che «in certi casi i genitori dovrebbero usare anche qualche ceffone». Naturalmente sulla frase si è immediatamente aperta una polemica, come usualmente succede praticamente su tutto nel nostro Paese, con qualcuno che ha criticato l’invasione di campo  di Salvini in questioni  di carattere scientifico e specialistiche, quelle della pedagogia, mentre  altri hanno invece sostenuto la correttezza di un’educazione più severa, e in alcuni casi particolari, con interventi punitivi, sberlone compreso.

    Il dibattito sui temi dell’educazione oscilla ormai tra una generica e giusta difesa  di principi generali, con motivazioni più che valide, il rispetto del bambino  come persona e  la necessità di un’educazione che passi attraverso il dialogo e non l’imposizione. Tutti principi assolutamente condivisibili. Tra le poche certezze che abbiamo c’è quella di sapere, per dati statistici e studi, che crescere in un clima violento certamente nuoce ai bambini e alla loro educazione.

    Non si tratta qui di scegliere tra educazione repressiva o educazione permissiva, bensì il tema è come affrontare situazioni impreviste nelle quali i  giovani compiono atti gravi, più o meno consapevolmente, e su come intervenire in questi casi, sia da parte della scuola che della famiglia. Seppur ovviamente distinguendo modi e ruoli che, per ovvie ragioni, non possono essere uguali  ma devono convergere verso un unico obiettivo.

    Prima che accada un fatto grave, inoltre, non sempre c’è tempo di discutere coi ragazzi di quello che potrebbe succedere e su quali  potrebbero essere le conseguenze dei loro atti.

    D’altra parte non possiamo nemmeno pensare di delegare per intero l’educazione dei ragazzi a figure specialistiche, mentre invece questa è la tendenza imperante.

    Qualche giorno fa un bambino di 7 anni  ha prima tirato un coltello contro la maestra, poi le ha dato una testata sul viso. Sempre in questi giorni, una bambina di carnagione scura in un video denuncia il disprezzo con cui la trattano i compagni che la isolano.  Sono solo gli ultimi di una serie di episodi.

    In nessuno dei due casi erano intervenuti  scuola o  genitori a fermare i bambini. Qui non si tratta di fare  un confronto tra scuole di pensiero. Siamo alla scelta  tra il nulla e qualche cosa. I genitori si devono assumere le loro responsabilità che sono  affettive, morali ed educative, il cui vuoto non può essere colmato o  risolto dagli  specialisti dell’educazione.

    Il ceffone certo non può essere considerato un buon metodo educativo, ma piuttosto dell’assenza totale, quanto meno è una manifestazione d’interesse.