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Di Agostino Clerici
Confesso di non essere un cinefilo. È da un po’ di anni che non entro in una sala cinematografica. E non sono nemmeno abbonato ad alcun canale tematico che manda in onda film on demand. Guardo saltuariamente qualche pellicola trasmessa in chiaro dalla televisione generalista. Scrivo da non esperto di cinema, dunque.
Immagino che anche in questo campo, però, a guidare le scelte di un carrozzone immenso e variegato ci siano i soldi. E non lo dico da scandalizzato. La cultura ha bisogno di danaro per sopravvivere e, invece, è la cenerentola e riceve le briciole. Il problema, semmai, è stabilire dove finiscono gli affari e dove inizia la cultura, e il confine non è sempre così facile da individuare.
Alla recente Mostra del Cinema di Venezia il premio più prestigioso – il Leone d’Oro – è andato ad un film in bianco e nero del regista messicano Alfonso Cuaròn. Mi dicono che non è stata una sorpresa e che il premio è stato assegnato all’unanimità dai nove giurati. Eppure qualcuno si è lamentato. Sono tre associazioni del settore: Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), Fice (Federazione Italiana Cinema d’Essai) e Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema).
Non hanno espresso riserve sull’alta qualità del film “Roma”, ma sui criteri con cui verrà distribuito e potrà, quindi, essere fruito dal grande pubblico. Le tre associazioni hanno espresso la loro contrarietà circa la scelta di aver inserito nel concorso di Venezia alcuni film (tra cui quello vincitore del Leone d’Oro) non destinati alla visione in sala, in quanto appartenenti alla piattaforma Netflix «che con risorse ingenti – così recita il comunicato – sta mettendo in difficoltà il sistema delle sale cinematografiche italiane ed europee».
Le tre associazioni vorrebbero che la Mostra del Cinema di Venezia – come già ha fatto il Festival di Cannes – non accetti film in concorso che appartengono a piattaforme digitali e che comunque un film debba essere destinato alle sale cinematografiche e solo dopo tre anni possa approdare in streaming. Mi pare di sentire la eco di una eguale polemica che qualche anno fa attraversò il mondo del calcio, quando le televisioni giunsero a svuotare gli stadi. Magari qualche valore vagamente culturale c’è in queste rivendicazioni. Magari è giusto invocare una regolamentazione circa i tempi dello streaming. Ma… tu chiamala, se vuoi, nostalgia. E, comunque, è una guerra di soldi e privilegi tra chi vorrebbe ancora le sale cinematografiche piene e chi insegue il pubblico nella inarrestabile privatizzazione del consumo digitale.
Hanno forse qualche ragione le tre associazioni, ma non ha torto il direttore della Mostra Alberto Barbera, quando dice che «bisogna guardare avanti e prendere atto delle nuove realtà come Netflix, Amazon e altri operatori analoghi che verranno». Siamo al solito problema: la rivoluzione digitale non può essere certo arrestata, ma deve essere governata e i fruitori devono essere educati. Purtroppo abbiamo tante persone che comandano e tante che protestano, ma poche sono in grado di governare e hanno voglia di educare.
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