di Mario Guidotti
Coronavirus: nonostante si faccia fatica a vedere la fine del tunnel, da un punto di vista sanitario proviamo a guardare al dopo emergenza. È fondamentale per due motivi: alleggerisce l’animo e serve a non farsi trovare impreparati come purtroppo è stato invece per l’inizio di questa tragedia planetaria.
Ci limitiamo a parlarne per la nostra nazione e regione. Ci sarà un momento tra qualche settimana o mese che vedrà meno malati, gravi e anche non, a casa e negli ospedali. Questi luoghi saranno, pensiamo e non è solo un auspicio, più alleggeriti ed avranno volumi minori di pazienti affetti da coronavirus da gestire.
Ciononostante, con questo dramma della polmonite interstiziale dovremo convivere, almeno fino all’arrivo del vaccino o di una terapia efficace. Sul territorio abbiamo due opzioni: se ne faranno carico i medici di famiglia, finalmente attrezzati adeguatamente, o verranno costituite delle squadre sanitarie, fatte di medici, infermieri e operatori, che diagnosticheranno, seguiranno, cureranno e assisteranno i malati che non necessitano ospedalizzazione? Perché abbiamo visto che i problemi da sanitari diventano anche sociali, se i soggetti infettati devono essere isolati per settimane, pluri-tamponati, alimentati, e alloggiati in quarantene (non tutti hanno case e appartamenti adeguati).
È importante che le autorità sanitarie ci pensino adesso, perché servono settimane per formare all’occorrenza i medici di famiglia o viceversa organizzare staff specifici. Lo stesso, avremo due scenari possibili per gli ospedali: proseguiremo con il “fai da te” di ciascun nosocomio, dove anche in assenza di reparti infettivologici ci si è inventati esperti in malattie contagiose, oppure potenzieremo quelli che da sempre si occupano di questo settore e centralizzeremo lì i malati che, pur in misura più contenuta, si infetteranno e svilupperanno sintomi gravi? Alla discussione serve sapere che i posti super-specializzati, come il famoso Spallanzani di Roma, hanno avuto zero contagiati tra il personale sanitario, dato non irrilevante se consideriamo che tra medici e infermieri abbiamo contato ben più di cento morti fino ad ora.
Sarà poi interessante vedere i dati di mortalità e guarigione che si sono presentati nelle diverse realtà ospedaliere, a seconda se precedentemente specializzate o no alla cura delle malattie contagiose. Non saranno numeri utilizzati per dare pagelle, ma fondamentali per la successiva programmazione. I malati devono andare dove vengono curati meglio, è indiscutibile.
Proseguiremo quindi con un reparto “Covid” in ogni ospedale o struttureremo sedi di cura specifiche dove inviare questi malati una volta diagnosticati? Le scelte vanno fatte ora, perché non è facile organizzare sia il territorio che la rete ospedaliera. Chi fa cosa? E poi, con che strumenti, personale, risorse la fa? Se per come è stata gestita l’emergenza ci possono essere indulgenze sulla base della tumultuosità degli eventi, così non potrà essere per la cosiddetta fase due. Bisogna decidere, ma adesso.
di Mario Guidotti
Coronavirus: nonostante si faccia fatica a vedere la fine del tunnel, da un punto di vista sanitario proviamo a guardare al dopo emergenza. È fondamentale per due motivi: alleggerisce l’animo e serve a non farsi trovare impreparati come purtroppo è stato invece per l’inizio di questa tragedia planetaria.
Ci limitiamo a parlarne per la nostra nazione e regione. Ci sarà un momento tra qualche settimana o mese che vedrà meno malati, gravi e anche non, a casa e negli ospedali. Questi luoghi saranno, pensiamo e non è solo un auspicio, più alleggeriti ed avranno volumi minori di pazienti affetti da coronavirus da gestire.
Ciononostante, con questo dramma della polmonite interstiziale dovremo convivere, almeno fino all’arrivo del vaccino o di una terapia efficace. Sul territorio abbiamo due opzioni: se ne faranno carico i medici di famiglia, finalmente attrezzati adeguatamente, o verranno costituite delle squadre sanitarie, fatte di medici, infermieri e operatori, che diagnosticheranno, seguiranno, cureranno e assisteranno i malati che non necessitano ospedalizzazione? Perché abbiamo visto che i problemi da sanitari diventano anche sociali, se i soggetti infettati devono essere isolati per settimane, pluri-tamponati, alimentati, e alloggiati in quarantene (non tutti hanno case e appartamenti adeguati).
È importante che le autorità sanitarie ci pensino adesso, perché servono settimane per formare all’occorrenza i medici di famiglia o viceversa organizzare staff specifici. Lo stesso, avremo due scenari possibili per gli ospedali: proseguiremo con il “fai da te” di ciascun nosocomio, dove anche in assenza di reparti infettivologici ci si è inventati esperti in malattie contagiose, oppure potenzieremo quelli che da sempre si occupano di questo settore e centralizzeremo lì i malati che, pur in misura più contenuta, si infetteranno e svilupperanno sintomi gravi? Alla discussione serve sapere che i posti super-specializzati, come il famoso Spallanzani di Roma, hanno avuto zero contagiati tra il personale sanitario, dato non irrilevante se consideriamo che tra medici e infermieri abbiamo contato ben più di cento morti fino ad ora.
Sarà poi interessante vedere i dati di mortalità e guarigione che si sono presentati nelle diverse realtà ospedaliere, a seconda se precedentemente specializzate o no alla cura delle malattie contagiose. Non saranno numeri utilizzati per dare pagelle, ma fondamentali per la successiva programmazione. I malati devono andare dove vengono curati meglio, è indiscutibile.
Proseguiremo quindi con un reparto “Covid” in ogni ospedale o struttureremo sedi di cura specifiche dove inviare questi malati una volta diagnosticati? Le scelte vanno fatte ora, perché non è facile organizzare sia il territorio che la rete ospedaliera. Chi fa cosa? E poi, con che strumenti, personale, risorse la fa? Se per come è stata gestita l’emergenza ci possono essere indulgenze sulla base della tumultuosità degli eventi, così non potrà essere per la cosiddetta fase due. Bisogna decidere, ma adesso.
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