Categoria: Opinioni & Commenti

  • Animali in città, l’illusione della pandemia

    Animali in città, l’illusione della pandemia

    di Agostino Clerici

    Nel giardino della casa dove ho abitato fino a due anni fa era diventato normale vedere i caprioli. Mi trovavo a pochi chilometri dalla città, ma il mio giardino comunicava direttamente con la montagna, e in fondo non c’era da meravigliarsi più di tanto che i caprioli lo scambiassero per una tranquilla radura nel bosco. A poco a poco si sono abituati alla mia presenza discreta e non li disturbava ormai nemmeno il suono delle campane. In fondo quei caprioli si erano gradatamente ambientati entro lo spazio di vita di un “animale” tranquillo e solitario quale io devo essere sembrato loro.

    Questo piacevole ricordo bucolico mi porta a riflettere su un fenomeno che nell’ultimo anno pare essersi verificato in tante città del mondo. Infatti, il lungo isolamento cui ci ha costretti la pandemia, con la conseguente riduzione delle attività umane, ha spinto alcuni animali selvatici ad esplorare le zone urbanizzate. Foto e video hanno invaso la Rete (anche con alcuni clamorosi falsi dovuti a fotomontaggi) e così abbiamo scoperto che un’aquila reale vola sopra i grattacieli e le guglie di Milano, che i canguri saltellano tra le vie di Adelaide e le scimmie lungo i viali delle città thailandesi, che i leoni prendono il sole sull’asfalto di città sudafricane e i bufali corrono in superstrada a Nuova Delhi.

    C’è un modello che permette di capire i criteri con cui gli animali utilizzano lo spazio, non solo in base alle caratteristiche ambientali ma anche sulla base del pericolo percepito, creando una sorta di mappa mentale di rischio che valuta i costi e i benefici dei loro spostamenti. Ad esempio, sul muro del mio giardino cresceva un’edera che io né mangiavo né tagliavo e i caprioli ne erano invece particolarmente ghiotti: una volta appurato che a me l’edera non interessava e che la lasciavo volentieri ai caprioli, nella loro mappa di rischio il mio giardino è diventato un luogo di spostamento sufficientemente sicuro (anche perché pochissimo antropizzato) e redditizio (perché il cibo era abbondante, fresco e non conteso da nessuno).

    Questo deve essere stato anche il “ragionamento” di quei cinghiali che si sono spinti fino ai succulenti cassonetti che purtroppo spesso rimangono per giorni lungo alcune vie di Roma. Anzi, poco tempo fa ha fatto scalpore il video girato nel parcheggio di un supermercato della capitale e che ritrae un gruppetto di facinorosi cinghiali scippare una impaurita signora del suo sacchetto della spesa. Evidentemente la paura della signora deve essere stata avvertita come superiore alla paura che l’animale selvatico comunque nutre per l’uomo e il beneficio è stato considerato maggiore rispetto al rischio.

    Si comprende perché la pandemia che ha svuotato le strade delle città abbia convinto gli animali a frequentarle, facendole ritenere più sicure proprio perché senza l’uomo e senza i suoi rumori: la riduzione dei nostri spostamenti ha favorito gli spostamenti degli animali, aumentando il loro livello di “sfrontatezza”. Se è vero che il 56% della popolazione mondiale vive in città, la pandemia ha come annullato gli effetti dell’urbanizzazione, riportando indietro l’orologio della storia di due secoli, quando esistevano solo una cinquantina di città sopra i 100mila abitanti. Ma si è trattato solo di una parentesi, di una illusione. Per noi e anche per gli animali.

  • Compito in classe sui parcheggi

    Compito in classe sui parcheggi

    di Marco Guggiari

    L’ultimo annuncio è dei giorni scorsi e prevede che il mini-parcheggio (da settanta a cento posti auto) davanti all’ex centrale termica della Ticosa, l’edificio fatiscente che incrociamo percorrendo viale Roosevelt, sarà pronto entro l’anno prossimo. Nello scorcio che resta del 2021 sono previsti il progetto e l’indizione della gara.

    Non è la prima volta che se ne parla. Il sindaco promise addirittura un parcheggio in tutta l’area ex Ticosa entro il Natale del 2018. Poi si garantì che il posteggio, sia pure limitato all’area antistante la Santarella, sarebbe stato pronto entro aprile-maggio 2019, con tanto di ipotesi tariffarie. In seguito una mozione del consiglio comunale, votata l’1 ottobre dello stesso anno con i voti decisivi delle minoranze, disse sì a questa funzione. Infine, dopo il disastro del fallimentare bando per la bonifica dei terreni dell’ex tintostamperia, nello scorso mese di aprile il Comune promise di predisporre il progetto entro quest’estate.

    Fin qui il riassunto delle parole sprecate e dei tre anni inutili trascorsi. Vedremo cosa accadrà. Può darsi che le vicine elezioni facciano il miracolo laico. Interessa però, più in generale e al di là dello specifico caso, ragionare sui parcheggi in città. Non si può proseguire così. Mancano autosili, mancano soluzioni, manca una prospettiva ragionata. Adesso che i lockdown sono finiti, si spera per sempre (?), siamo tornati a girare a pieno regime per le vie di Como inquinando, sprecando carburante, perdendo tempo e denaro, esasperandoci.

    Il capoluogo non ha avuto risposte per troppo tempo su questo tema strettamente connesso alla mobilità. È venuto il momento di domandarsi qual è la prospettiva e di chiederlo ai candidati sindaco, quando questi saranno individuati. Serve anche qui una visione che tenga conto della conformazione di Como, dei suoi limiti di sopportabilità del traffico in termini qualitativi e quantitativi, ecologici e di percorribilità delle strade.

    Serve una risposta definitiva alla questione dell’autosilo più inutilizzato della storia, quello della Valmulini, di fronte all’ex ospedale Sant’Anna, a ridosso di via Napoleona. Gli incentivi tariffari, è dimostrato, non bastano. Nemmeno con il ticket a un euro, incluso il biglietto del bus per l’intera giornata, in epoca preCovid e prenatalizia gli stalli si riempivano. Qualcosa vorrà pur dire. E non occorre grande scienza per capire che ciò era dovuto soprattutto alla mancanza di rapidità dei movimenti. Con la Napoleona bloccata in coda solo un masochista potrebbe optare per questa soluzione. Dunque è necessario un piano, magari impopolare ma credibile (a proposito, il Piano del traffico vigente ha vent’anni). Un piano finalizzato a orientare e a creare una nuova abitudine tra gli utenti. Un piano che non pretenda la passiva accettazione delle ore sugli autobus. Un piano che presupponga l’impegno, lo sforzo, l’accordo comune tra diversi soggetti (quello titolare e protagonista dei trasporti pubblici su gomma e quello della vigilanza municipale sono decisivi).

    Tutto questo in attesa che poi si realizzino altri posteggi, quelli promessi in Ticosa, nell’area ex Danzas, e ipotetici nuovi autosili che non dovrebbero essere tabù. E che si riprenda in mano il ragionamento sulla metrotranvia e sui parcheggi di corona. Ecco il primo compito in classe per gli aspiranti primi cittadini.

  • Como con la bombetta  Il calcio tra ieri e oggi

    Como con la bombetta Il calcio tra ieri e oggi

    di Marco Guggiari

    Un anno fa americano, con un po’ di Sardegna; adesso inglese. Il Calcio Como 1907 inizia una nuova avventura che conferma la mutazione genetica dello sport locale: via, via nel tempo, dai professionisti indigeni ai danarosi “forestieri”, infine agli “stranieri” disposti a investire risorse. È la globalizzazione, bellezza, si potrebbe dire. Ben venga d’altronde, se ne possono derivare benefici per la storica squadra, per gli appassionati, per futuri giovani campioni, per la città, per le infrastrutture. Un grazie carico di auspici, dunque, a chi ha favorito la nuova fase. Il Como, però, è inglese fino a un certo punto. La società acquirente, che si occupa di mezzi di comunicazione e intrattenimento, è tale, ma dei tre soci, uno solo èbritannico, due invece indonesiani, a riprova dei nuovi confini del pallone. E l’amministratore delegato è americano. Chi mai avrebbe pensato al football asiatico e statunitense solo trent’anni fa? Improponibile.Roba da dilettanti. E invece le risorse adesso sono lì e anche la voglia di risultati e affermazioni. Come in Cina, del resto. Se poi vogliamo aggrapparci al calcio romantico, non dobbiamo pensare in modo autarchico ma, a questo punto, guardare oltremanica. Sì perché, romanticamente, gli azzurri con la “bombetta”, come venivano raffigurati nel 1966, all’epoca degli sfortunati Mondiali nel Regno Unito gli altri azzurri della Nazionale, evocano quanto meno le origini del gioco del pallone. Indubitabilmente inglese. E, restando in tema epico e di costume, fanno anche pensare al tratto arcigno di certi difensori dell’Isola che fa capo a Londra: botte da orbi, accompagnati da eleganti ma poco credibili “sorry”, sussurrati agli azzoppati centravanti della parte avversa. Chissà che il Como, sulla scia della tradizione, non se ne giovi, ergendo da adesso in avanti insuperabili difese… Sotto il profilo politico, poi, la nuova era in riva al Lario è curiosamente in controtendenza con la Brexit, l’uscita – sempre rinviata – del Regno Unito dall’Unione Europea. Tra i fautori dell’interminabile addio e quelli del nostalgico “remain”, che vorrebbero rinnegarlo, a modo suo la società di viale Sinigaglia sceglie ora una terza via: l’ingresso, “entrance”. Poi, sempre pensando in inglese, ricordiamo che in fin dei conti la prima esperienza extra-italiana del Como avvenne nel Torneo anglo- italiano del 1973, confrontandosi con Newcastle, Blackpool, Oxford United, Fulham. Quasi una premonizione… Purché sia concessa un po’ di pace, dopo gli ultimi vent’anni vissuti pericolosamente all’ombra di troppe illusioni e delusioni e di alcuni improbabili personaggi. Sì, non guasterebbe, davvero.

  • Concorsi, assunzioni e disparità territoriali

    Concorsi, assunzioni e disparità territoriali

    di Adria Bartolich

    In  una della sue pagine  Orizzonte scuola,  ovvero il sito più aggiornato e consultato di informazioni sulla scuola, ormai la Bibbia  degli insegnanti e del personale della scuola,  consiglia caldamente  di fare le domande di messa a disposizione, cioè domande riservate a chi non è in graduatoria, e che fuori sacco rappresentano il bacino di insegnanti  al quale attingono  le scuole quando sono alla canna del gas e senza docenti.

    E questo succede da tempo  nelle regioni del Nord. Giusto per essere precisi, sono domande che possono fare i laureati o i diplomati all’istituto magistrale rimasti esclusi per qualche ragione delle  graduatorie e consentono di stipulare contratti in deroga per quanto previsto  quando le scuole sono alla  disperazione.

    Le scuole  vi attingono se non trovano persone con  i requisiti necessari, che invero sono abbastanza complicati (laurea, abilitazione o concorso, oppure abilitazione e concorso, o concorso abilitante; però per coloro che hanno conseguito il diploma magistrale prima del 2001 è sufficiente quest’ultimo), e prendono anche semplicemente studenti dell’università.

    Ora nella scuola europea sono previsti grosso modo tre sistemi di assunzione: 1) il titolo di studio  con la valutazione delle competenze professionali direttamente attribuite alla scuola e alla sua dirigenza (Norvegia, Finlandia, Paesi Bassi,  Paesi del Nord-est europeo,  Austria, Portogallo,  Grecia, Svizzera); 2) la formazione iniziale con una conferma dopo un periodo di lavoro  (Svezia, Inghilterra,  Germania , ex Jugoslavia);

    3) la  formazione iniziale con aggiunta del concorso (Spagna, Francia, Italia; c’è anche  un periodo di prova che è praticamente una formalità).

    Nei cosiddetti sistemi aperti  la responsabilità del reclutamento spetta alla singola scuola (spesso assieme all’autorità locale),  mentre  in quelli centralizzati   la responsabilità della gestione delle assunzioni è tutta demandata all’amministrazione pubblica.

    Noi siamo tra questi  insieme a  Spagna e Germania, dove  la competenza è dei Laender e delle comunità autonome, quindi con  una gestione decentrata, e alla  Francia, dove è statalizzato. Punto. Si vince una cattedra e lì si rimane. In Italia l’assunzione avviene con il concorso ma una serie di fasi successive provvedono a collocare i docenti non sul territorio locale, bensì su quello nazionale, evidentemente creando assurde disparità territoriali che il sistema non riduce, anzi tende ad amplificare e a rendere immutabili.

  • Como ha un passato che pesa

    Como ha un passato che pesa

    di Marco Guggiari

    “Un grande avvenire dietro le spalle” era un libro autobiografico scritto in età matura da Vittorio Gassman, attore e regista tra i maggiori d’Italia. C’è chi usa questa espressione per alludere, non senza ironia, alla situazione di Como: una certa oggettiva decadenza preceduta da lunghi periodi di splendore. Tra questi, certamente, nei tempi più antichi le epoche legate a civiltà che ci hanno preceduto. Ce ne dimentichiamo, ma ecco che ogniqualvolta si mette mano al piccone ne affiorano le testimonianze. E questo, inevitabilmente, è un guaio nel guaio di un capoluogo che stenta a vivere di vita nuova.

    Non abbiamo a che fare soltanto con il valore della città “sommersa”, con le sue esigenze di salvaguardia di antiche vestigia e di attesa vetrina per quanto talvolta emerge e stupisce (pensiamo alle monete d’oro romane di via Diaz), ma dobbiamo fare i conti anche con l’importante condizionamento determinato da tanta storia stratificata nei secoli e nei millenni.

    Basti ricordare che Como fu colonia dell’Impero romano dal 59 a. C. e che gli studiosi da lì in poi le hanno attribuito ben nove fasi insediative fino all’età basso-medioevale e moderna. Prima dei Romani, tra l’altro, c’erano già stati i Liguri e poi gli Etruschi.

    Le evidenze di questo percorso sono particolarmente nitide in queste settimane di lavori ordinari che hanno portato alla luce in via Sant’Abbondio e in via Borgovico tombe e resti dei nostri progenitori.

    Gli stop imposti dalla Soprintendenza saranno con ogni probabilità, in questi casi, limitati nel tempo. Non sempre però è così, anche perché di molte situazioni si ha preventiva conoscenza in base a indagini precise che evitano successivi disastri, ma di altre niente affatto.

    È innegabile che appena tre-quattro metri sotto i nostri piedi, nella Città Murata, c’è la Como romana e ci si imbatte in zone ad alto rischio archeologico.

    L’Ufficio tecnico del Comune di Como dispone di una mappa avuta dalla stessa Soprintendenza sul finire del secolo scorso. Dobbiamo augurarci che venga scrupolosamente aggiornata sulla base di tutte le nuove scoperte. Ad eccezione delle zone di Camnago Volta, Garzola e Civiglio pare infatti che quasi ovunque vi sia il rischio di imbattersi in “sorprese”.

    Prove in tal senso ne abbiamo del resto ampiamente avute nell’ultimo quarto di secolo con i reperti venuti alla luce in viale Varese e in via Benzi, quando si aprì il cantiere destinato alla costruzione del Pirellino, o molto prima in viale Lecco dove ci si imbattè nelle terme, o in piazza Cacciatori delle Alpi, con la scoperta del porto, o con l’antichissimo “cerchio magico” dell’area Tre Camini accanto a dov’è stato realizzato il nuovo ospedale Sant’Anna.

    Tanto per essere pratici, questo comporta spesso problemi per la realizzazione di autosili, di cui pure la città ha assoluto bisogno. In questo e in altri casi, quindi, il problema di fondo è come “musealizzare” senza contestualmente impedire che siano date risposte alle esigenze odierne. Ogni situazione è un’incognita e ha una risposta a sé. Una difficoltà in più, per certi versi, nello sviluppo di Como.

  • Come gli stiliti per guardare meglio

    Come gli stiliti per guardare meglio

    di Lorenzo Morandotti

    «Quando tirarono giù la ringhiera, lo trovarono con le ginocchia piegate al petto, le cosce attaccate ai talloni e ai polpacci. E dopo che il suo corpo venne disteso a forza, ci fu uno scricchiolio d’ossa sì da pensare che fosse andato in pezzi; ma una volta disteso, non mancava assolutamente nulla, anche se i piedi erano consumati dalle infezioni e mangiati dai vermi». Non siamo in un romanzo horror ma in una pagina di storia del Cristianesimo.

    Lo stilitismo – pregare per anni o addirittura  decenni in cima a una colonna, separati dal mondo – come conferma un insigne storico della Chiesa comasca, «non è tradizione delle nostre terre ma della chiesa d’Oriente». Per saperne di più occorre leggere il passo citato (siamo nel 493 d.C.)  nel volume edito da SE di Milano Fra terra e cielo. Vita di Daniele Stilita a cura di Laura Franco.  Quella di Daniele,  ben 33 anni passati in cima alla sua colonna, fu   vicenda che tenne banco a Costantinopoli.

    E oggi? Astrarsi dalla realtà e contemplare i problemi del mondo dall’alto sarebbe una tentazione, salvo che useremmo un drone e piloteremmo il tutto spaparanzati sulla poltrona da lockdown, probabilmente, per contemplare  una città ricca come Como che non sa risolvere con il dovuto orgoglio problemi ultradecennali come le aree dismesse, un Paese diviso tra immunità  (sperata) e impunità (ormai atavica per molti cialtroni in circolazione), senza contare, per tornare alla terra di Daniele, la crisi italoturca…  E poi oggi chi te la cede a buon mercato, una colonna? E magari la vorresti pure Covid free? Meglio allora immergersi  nel mondo,  tra  rabbia, povertà e  lacerazioni sociali crescenti? Forse c’è una terza via, fra terra e cielo: contemplativi sì ma senza mai dimenticare che siamo carne e sangue.  Mezzo millennio fa ce lo ha insegnato Raffaello con la sua Scuola d’Atene:  al centro  Platone (con la faccia e la barba di Leonardo) e Aristotele,  figure fondamentali  e complementari per lo sviluppo del pensiero occidentale. Platone  solleva il dito verso l’alto, Aristotele          auspica il ritorno al mondo sensibile. Qualcuno dice che il Rinascimento per l’Italia è stato solo una botta di fortuna. Io spero fermamente di no.

  • Bimbo caduto, le scuole non sono carceri

    Bimbo caduto, le scuole non sono carceri

    di Adria Bartolich

    Spiace dovere tornare sulla triste vicenda del bambino caduto dalle scale in una scuola primaria a Milano un anno e mezzo fa. I fatti: il bimbo uscito per andare ai servizi con regolare permesso della maestra, sentendo rumori provenienti dal basso, si è arrampicato su una sedia trovata in corridoio e sporgendosi è caduto nella tromba della scale.

    Pochi giorni fa ha patteggiato due anni di reclusione la collaboratrice scolastica che avrebbe dovuto vigilare in corridoio, la quale aveva abbandonato la postazione perché  occupata al cellulare per una telefonata di carattere personale per un paio di minuti, che purtroppo sono stati sufficienti perché accadesse la tragedia, e non aveva provveduto a rimuovere la sedia con le rotelle utilizzata dal bambino. E fin qui nulla da dire, se chi doveva vigilare non era presente, è chiaro che non ha adempiuto al suo dovere.

    La cosa che invece lascia abbastanza sconcertati, almeno per quanto ci viene riferito dalla stampa, è la condanna emessa nel processo con rito abbreviato nei confronti di una delle due maestre presenti in classe – un anno di carcere, con sospensione condizionale della pena, per omicidio colposo – e il rinvio a giudizio dell’altra insegnante che aveva scelto il rito ordinario.

    La stampa non specifica a che titolo fossero presenti due insegnanti in classe e se la seconda insegnante fosse  o meno di sostegno. La sentenza  attribuirebbe la responsabilità  alla maestra  per  avere consentito l’uscita del bambino, violando così il regolamento dell’Istituto, e la direttiva della scuola avente ad oggetto la vigilanza sugli alunni, nel quale  sembra essere specificato il divieto di “recarsi ai servizi igienici fuori dall’orario programmato.”

    Se fosse così mi pare chiaro che il compito delle insegnanti sarebbe più simile a quello di un vigile che a quello di un docente.

    È chiaro che stiamo discutendo di una situazione limite, ma a fronte della collocazione al piano alto di una classe della scuola primaria, con scale dotate di una semplice ringhiera, una sedia con le ruote lasciata in corridoio, la mancata vigilanza della collaboratrice, seppur per poco, viene condannata una maestra (o forse tutte e due, non lo sappiamo ancora visto che il processo alla seconda insegnante si aprirà l’11 luglio) perché ha lasciato uscire il bambino per andare ai servizi.

    Ora, è evidente  che se un regolamento d’istituto può rappresentare una questione dirimente addirittura per un caso di omicidio colposo, la stesura dei regolamenti d’ora in poi diventerà una questione molto complicata. Inoltre ci chiediamo se fosse tanto perentorio da vietare in ogni modo l’uscita al di fuori degli orari prestabiliti: in questo caso sarebbe anche vagamente  folle, visto che impedire a un bambino di  fare la pipì o di vomitare se ne abbia la necessità, sarebbe alquanto assurdo, soprattutto perché sono situazioni che si verificano regolarmente e, aspetto, non secondario, perché la scuola non è un carcere.

  • Branzi e Morozzi come Ulisse  e Penelope

    Branzi e Morozzi come Ulisse e Penelope

    di Lorenzo Morandotti

    Ci sono incontri preziosi, maieutici, che lasciano il segno. Il ciclo di esperienze didattiche “L’officina dei sensi” a cura Daniela Cairoli e Alfredo Taroni al liceo artistico “Fausto Melotti” di Cantù ha ospitato  nelle scorse settimane, in modalità telematica,  due protagonisti del design, Michele De Lucchi e Andrea Branzi, che  hanno molto da dire anche come architetti e urbanisti,    profeti delle città e degli ambienti  che andranno ad abitare gli italiani del futuro.

    Ambedue, De Lucchi e Branzi, hanno da tempo una solida collaborazione con l’atelier d’arte Lithos di Como che ha firmato alcune opere importanti del loro percorso creativo.

    Branzi  ha collaborato con Lithos di Como nella realizzazione dell’opera “Dieci modesti consigli per una nuova Carta di Atene”  organizzata come un rotolo infinito, come il manoscritto originale di Jack Kerouac On the road o una Torah ebraica,  poi riprodotta su un telo lungo oltre  20 metri, stampato dalle  Seterie Argenti di Como e successivamente esposto alla Harvard University. A distanza di oltre 80 anni dalla “Carta di Atene” firmata dai più interessanti architetti razionalisti degli anni ’30, che prefiguravano l’idea di città moderna, la “Nuova Carta” di Branzi   riformula i punti salienti per una visione più attuale e realistica della città e dell’urbanistica, alla luce dei grandi cambiamenti determinati dalle nuove migrazioni, dalle tecnologie e dall’economia globale.

    Branzi, che ha tenuto il suo incontro affiancato dalla moglie Nicoletta Morozzi, direttrice del settore moda della scuola Naba di Milano,  alle ragazze e ai ragazzi del Melotti che si preparano per diventare artisti, scenografi e designer, ha spiegato che occorre rivalutare il sogno come laboratorio di idee, di intuizioni e anche di contaminazioni:  fa emergere territori  creativi nuovi che sono importanti, nel design che non è solo una professione ma una parte importante della cultura umana.  Ha sottolineato l’importanza delle cose che normalmente reputiamo inutili, come la poesia e    la letteratura, che invece nella storia dell’uomo si sono rivelate importanti.  E ha portato ad esempio il cieco Omero che ci racconta un mondo che ancora oggi   emoziona.

    Come Ulisse e Penelope anche Branzi e Morozzi navigano da sempre verso mete sconosciute, esplorando la realtà per misurarsi in nuove sfide. Una bella lezione di arte e di vita.

  • Corsi estivi, occasione da non perdere

    Corsi estivi, occasione da non perdere

    di Adria Bartolich

    Come ho già avuto modo di dire, storicamente l’introduzione massificata di nuove tecnologie funziona da straordinario amplificatore delle condizioni esistenti. Sia in senso negativo che in quello positivo. Così è stato anche per l’uso dell’informatica in settori delicati come la scuola.

    Durante il primo lockdown, a parte un iniziale momento di smarrimento, spesso le scuole e gli insegnanti non erano attrezzati ad affrontare le lezioni con l’uso esclusivo del computer. Anche i ragazzi, meno informatizzati di quanto si creda, per i quali l’uso dei devices si limitava all’apertura dei siti e ai social, hanno dovuto alfabetizzarsi, così come i genitori per seguirli un minimo nella loro vita scolastica.

    Certo, i livelli di partenza sono stati molto diversi tra i soggetti. Dopo una fase iniziale di totale confusione, nel corso della quale si è dovuto supportare le famiglie e i ragazzi affinché fosse garantita la loro connessione, la didattica a distanza (Dad) si è consolidata.

    Le scuole e gli insegnanti hanno dovuto reinventarsi, così come gli alunni, a volte con risultati persino sorprendenti. Qualcuno si è limitato a fare lezioni on line, altri si sono inventati un nuovo modo di fare scuola, più moderno, ricco e interdisciplinare.

    Nemmeno la scuola in presenza  sarà più la stessa. Indietro non si torna. Certo, la Dad ha messo in evidenza tutti i pregi e i difetti del nostro sistema scolastico e sociale. Dall’arretratezza nell’uso delle nuove tecnologie alle differenze soggettive e sociali nell’accesso ai nuovi strumenti, ma anche a quelli più tradizionali. La Dad non ha raggiunto tutti, né nelle scuole, né nelle aree del Paese.

    Immagino che tutta una serie di rilevazioni che le scuole sono state tenute ad effettuare avessero come scopo proprio l’accertamento delle condizioni e dei risultati di questi quasi due anni di didattica a distanza, mista e in presenza, per i ragazzi con disturbi dell’apprendimento o diversamente abili.

    Il ministero dell’Istruzione ha, perciò, deciso l’allungamento dell’anno scolastico. Intendiamoci, per molte scuole non saranno tempi di recupero, perché le lezioni si sono svolte regolarmente seppure con forme diverse, ma semplicemente un prolungamento delle attività. Per altre potrebbe essere l’occasione, invece, per riprendere un rapporto con i ragazzi, risultato deficitario nel corso dell’anno.

    L’apertura delle scuole in estate può rappresentare per molti ragazzi un’occasione da non perdere.

    Occorre però capire i limiti nei quali l’operazione si svolgerà.

    I corsi nei mesi estivi non sostituiranno in alcun modo l’attività didattica bensì saranno un modo per consentire ai ragazzi di approfondire alcuni interessi e soprattutto ritornare ad avere una vita sociale in sicurezza.

    L’adesione ai progetti sarà su base volontaria. Temo perciò che nelle scuole dove si è arrancato già nella didattica ordinaria, si arrancherà anche nelle attività previste nei mesi estivi.

  • Coprifuoco, dal Medioevo difesa contro gli incendi

    Coprifuoco, dal Medioevo difesa contro gli incendi

    di Agostino Clerici

    «Usanza medievale per cui, a una determinata ora della sera, gli abitanti di una città erano tenuti a coprire il fuoco con la cenere per evitare incendi». Così il vocabolario recita alla voce «coprifuoco». E subito aggiunge un secondo significato, per così dire derivato: «Divieto straordinario di uscire durante le ore serali e notturne imposto dall’autorità per motivi di ordine pubblico, in situazioni di emergenza».

    Fino a qualche mese fa tutti noi, quando sentivamo la parola «coprifuoco», pensavamo alla guerra e in effetti il termine sembrava relegato a questo ambito. Senonché abbiamo dovuto diseppellirlo dalla cenere in tempo di pace come misura per sfavorire il contagio da coronavirus.

    E si direbbe che il coprifuoco stia suscitando un focolaio di polemiche di sapore filosofico e politico.

    C’è chi sostiene che lo Stato non possa stabilire che cosa devo fare io nella gestione del mio tempo, per cui il coprifuoco come imposizione generale è una misura insostenibile entro una società fondata sulla libertà degli individui. Dall’altra parte si sostiene, però, che la società è fondata sul delicato equilibrio tra bene comune e libertà individuale, per cui chi ha ricevuto dai cittadini il compito di assicurare il benessere sociale è legittimato anche ad imporre un coprifuoco.

    Certo, potrebbe anche affidarsi alla responsabilità dei singoli e limitarsi ad un semplice consiglio, magari ad una severa esortazione, ma evidentemente – e non a torto, devo riconoscerlo – preferisce imporre una norma generale, intimando un coprifuoco chiaro e distinto in cui c’è un’ora di inizio e un’ora di fine: dalle 22 alle 5. Naturalmente si prevedono esigenze di lavoro, salute e necessità, che possono esentare dal rispetto della norma e che devono essere autocertificate.

    Credo che la decisione del coprifuoco – mantenuto negli stessi orari pur entro un piano di graduale riapertura delle attività – faccia parte del famoso «rischio ragionato». Arriva la bella stagione, le temperature serali aumentano, c’è una grande voglia di uscire, magari di andare a cena con gli amici. Sono pensieri malvagi, questi? Affatto, anzi sono desideri legittimi e comprensibili, a maggior ragione dopo mesi di fatica e di isolamento tra le mura domestiche. E proprio per questo l’autorità pubblica, che si trova a dover combattere contro un virus che non ha coprifuoco da rispettare, deve proteggere i cittadini dal loro stesso legittimo desiderio di libertà e limitare, con un orario dal sapore punitivo, l’anelito a godere di spazi di convivenza che possono ancora costituire pericolose occasioni di contagio.

    La misura del coprifuoco può sembrare coercitiva, ma in realtà è una misura preventiva e quindi provvisoria e rivedibile, non appena il rischio sarà oggettivamente diminuito e potrà essere gestito con un altro ragionamento, più in linea con il desiderio dei cittadini.

    Si può dibattere sul coprifuoco? I nostri politici lo fanno e si sprecano tante parole – forse troppe – anche nei talk-show per perorare la causa di chi vorrebbe rimanere fuori casa fino alle 23 o a mezzanotte o fino a quando vuole.

    Il proverbio dice che «la pazienza è la virtù dei forti». E quelli che riaprono lo sono, forti, se per il momento accettano di coprire il fuoco per proteggere la città dall’incendio che potrebbe ancora colpirla.