Categoria: Opinioni & Commenti

  • Bellagio, una meta da Nobel

    Bellagio, una meta da Nobel

    di Lorenzo Morandotti

    La poetessa americana Louise Glück, recente vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura (i suoi versi in traduzione italiana sono pubblicati dal Saggiatore), è stata intervistata da Luca Mastrantonio sull’ultimo numero di Sette, il settimanale del Corriere della Sera.

    Un ampio servizio in cui la scrittrice, nata nel 1943 a New York da una famiglia di immigrati ebrei ungheresi,  parla di sé e del suo “mestiere” di autrice in versi, ma anche della situazione del mondo e  getta semi di speranza per guardare oltre la crisi.

    L’articolo si è meritato giustamente il ruolo di cover story del periodico edito da Rcs.

    Non è mancata una domanda sul nostro Paese nell’intervista Louise Glück: «L’arte ci salverà dalla catastrofe della pandemia» che ora si può leggere anche sul sito del quotidiano di via Solferino.

    «È mai stata in Italia?»  chiede a Louise Glück l’autore dell’articolo.

    La risposta: «Un paio di volte. Prima dei miei 30 anni, a Bellagio, alla fondazione Rockefeller. Poi ho passato una settimana a Todi, da amici».

    «Bellagio». Una parola, una chiave che evoca destini, apre mondi nell’immaginario e non solo legati a questo nostro territorio visto che anche per gli americani, complice Las Vegas e l’omonimo grand hotel fondato da Steve Wynn, Bellagio bussa alla  memoria della fantasia  cinematografica (vedi il film Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco). Senza contare che Bellagio è ormai un brand: si chiama così anche  un giradischi costosissimo.

    Già il presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, quando visitò la “perla del Lario” l’anno prima della sua tragica e ancora misteriosa morte, ebbe parole entusiaste per il nostro territorio   e per la località che unisce idealmente i rami comasco e lecchese del Lario.  La fondazione Rockefeller in particolare è un punto di riferimento per la cultura  letteraria e non solo. Giusto dieci anni or sono vi ebbe luogo  il convegno del Pen Club presieduto da Sebastiano Grasso del Corriere della Sera sugli scrittori perseguitati.

    Il sodalizio riunisce poeti, narratori e saggisti dei cinque continenti. Il summit di Bellagio  ospitò tra gli altri interventi di Visar Zhiti (Albania), del poeta milanese Maurizio Cucchi, dello scrittore e giornalista Mimmo Càndito e di Fawzia Assad (Egitto), presentata da Franca Tiberto (allora presidente del Pen Svizzera).  Intervennero anche  Julia Dobrovolskaja (Russia), Grigorij Pas’ko (Russia) e Andrea Riscassi  per il nostro Paese.

    Un appuntamento importante per il Pen che alla Rockefeller celebrò  i cinquant’anni del comitato “Writers in prison”: riflettori accesi sullo scrittore che è testimone spesso scomodo e controcorrente, antisistema, portatore di un punto di vista non convenzionale  e come tale passibile purtroppo ancora oggi di persecuzioni intollerabili. Toccante  – lo ricordo perché allora ero presente alla Rockefeller come cronista del Corriere di Como  –  fu in quel consesso   la testimonianza del celebre fotografo di Bagheria  Ferdinando Scianna  (il cui nome è legato anche allo scrittore Leonardo Sciascia di cui celebriamo il centenario della nascita) a proposito di quest’epoca ammalata di voyeurismo mediatico. «Non tutte le immagini si possono pubblicare – dichiarò al nostro giornale  – non si può trasformare in fotografia ogni pulsione umana, occorrono equilibrio e decenza. Ce lo ha insegnato Robert Capa che si rifiutò alla fine della guerra di fotografare i campi di sterminio».

  • Accidia, tra i peggiori nemici del cervello

    Accidia, tra i peggiori nemici del cervello

    di Mario Guidotti

    Viviamo un momento sospeso, giorni uguali, settimane piatte, mesi che si ripetono in attesa di tornare alle nostre vite. Tutto lento a passare ma di colpo ci troviamo proiettati in avanti. Qualcuno ha detto che il tempo della nostra vita scorre come un rotolo di carta: lento all’inizio e molto veloce verso la fine. Più di un briciolo di verità c’è.

    Tutti ricordiamo infatti come lentissimo il tempo della nostra gioventù: pomeriggi interminabili, estati eterne, vacanze che non arrivavano e poi non finivano mai, periodo natalizio lontanissimo. Ora, nella stagione autunnale ed anche invernale della nostra vita in un attimo è sera (Copyright Enzo Biagi), sembra di essere sempre allo stesso giorno della settimana tanto queste passano in fretta e in un secondo è già Natale.

    È evidente che il tempo è lo stesso, ma cambia profondamente la percezione dello stesso. Si tratta di un fenomeno noto in neurobiologia, legato alla fase evolutiva (ma soprattutto involutiva) del nostro cervello e in particolare alle nostre attività. Infatti, finché noi abbiamo una forte progettualità (anno scolastico, obiettivi sportivi, programmi di vacanze, di crescita, ma anche sentimentali, comunque di sviluppo di un’idea o passione) il tempo è lungo e lento a passare.

    Quando la nostra vita si fa invece ripetitiva, con tutte le giornate uguali, con una certa fissità di azioni e di persone che ci circondano, ecco che il tempo passa veloce. Il segreto, si fa per dire, sta nell’attesa, appunto nella pianificazione della nostra vita. Se noi aspettiamo qualcosa con bramosia ecco che “non arriva mai” e il tempo ci sembra dilatato. Se invece viviamo in maniera ripetitiva le nostre giornate il tempo vola.

    Se vogliamo quindi metaforicamente “fermare il tempo”, ma anche “afferrare il tempo” dobbiamo tornare ragazzi, quando c’era sempre qualcosa da aspettare. Gli esami, il compito in classe (oggi si  chiama verifica), la fine dell’anno scolastico, il derby a San Siro, la finale di Coppa dei Campioni (oggi si dice Champions), ma anche la telefonata della biondina del terzo banco che non ti filava mai. Mah, direte, che cosa c’è da aspettare adesso che siamo grandi, per non dire attempati? Stesso lavoro, stesse persone, stesso ambiente, stessa spiaggia stesso mare appunto. In realtà la ripetitività ce la creiamo noi. Perché è protettiva, perché in fondo siamo pigri e l’accidia è tra i peggiori nemici del nostro cervello.

    Facciamo sempre la strada più breve, indossiamo il capo più comodo, parcheggiamo più vicino possibile (anche se è in seconda fila), diamo la risposta più comoda e veloce, svicoliamo il problema, banalizziamo, rimandiamo, non affrontiamo, diamo del lungo, deroghiamo, cincischiamo, insomma, siamo pigri. Salvo poi lamentarci della ripetitività della nostra esistenza, ma anche della rapidità del passaggio del tempo. Quindi sta a noi afferrare il tempo riempiendolo di programmi, progetti, iniziative, obiettivi sì, anche in questo momento così difficile. Passerà comunque, ma potremo dire di non averlo lasciato vuoto.

  • Addio anno orribile, adesso tocca a noi

    Addio anno orribile, adesso tocca a noi

    di Lorenzo Morandotti

    Fra poche ore va in archivio l’annus horribilis della pandemia. Ne inizia  uno peggiore (dove però si ricorderanno, tramite i relativi centenari, maestri nel racconto   dell’animo umano come Dante, Dostoevski, Flaubert)? Oppure vedremo, come predica la frequente metafora di questi giorni di prime vaccinazioni, la luce in fondo al tunnel? Dipende come sempre in gran parte  da noi: dal comportamento quotidiano in primis e  dalle scelte, dall’atteggiamento che assumeremo nel medio e lungo periodo.

    Posto che il vaccino contro ignoranza ed egoismo, ossia l’amore,  per quanto più contagioso del morbo  non si inietta a comando. Anche se questa orribile esperienza  ancora non  finita  ha tolto a molti la voglia di guardare al di là del recinto dei giorni più prossimi, non aspettiamoci  deus ex machina risolutivi, in un Paese che di assistenzialismo già vive troppo, ma la paura irrazionale è altrettanto nociva della speranza immotivata: «nec spe nec metu», scegliamo quindi il motto di  Isabella d’Este che piaceva anche al poeta  Ezra Pound e al regista Luca Ronconi. Cioè: bando alle facili speranze,  ma parimenti  porte chiuse al pessimismo nel timore di chissà quale punizione.   Sul fronte della cultura la pandemia traccia un solco che per molti operatori sarà impossibile rimarginare, non solo sul fronte economico  ma anche nelle abitudini.

    Chi ha più voglia di andare al cinema (il divano è tanto comodo…) o  a teatro o al museo, mentre centinaia di persone ci lasciano per sempre? Eppure quei luoghi conservano una parte non irrisoria della nostra identità attraverso memorie che è doveroso tramandare intatte, anche se costa fatica e denari. A Pompei si è celebrata giustamente la scoperta di una tavola calda conservata sotto l’eruzione con ancora i resti del cibo nei recipienti (ha  ragione  chi aborre  termini come “street food”). Scoperta che dovrebbe interessare anche i comaschi,  visto che sotto lapilli e gas velenosi del Vesuvio incontrò la morte l’erudito Plinio il Vecchio. Il 2021 sarà decisivo per strutturare il bimillenario dell’antenato comasco. La scoperta pompeiana farà tornare la passione per l’archeologia negli italiani, una volta riaperti i cancelli di siti e musei?

    C’è da sperarlo ma non basta dormire sugli allori: la retorica del “Paese più bello del mondo”, della mitica meta del grand tour di goethiana memoria dove «fioriscono i limoni» da sola non basta a far rialzare da terra dopo tanti disastri, se non si lavorerà sodo e tutti insieme. C’è tantissimo  da fare. Buon anno nuovo a tutte e a tutti.

  • Dal Vaffa-Day al V-Day il passo è breve

    Dal Vaffa-Day al V-Day il passo è breve

    di Marco Guggiari

    Sono i giorni del bilancio di un anno e dell’inevitabile sguardo, sebbene nebuloso, verso il futuro. Viviamo un tempo in cui il clima di grande sforzo nazionale e il senso di solidarietà diffuso per la pandemia si sono ridotti. Oggi prevalgono gli stati d’animo negativi. La situazione generale è cambiata rispetto alla prima ondata del Covid. Siamo tutti più stanchi e provati. La contrapposizione prevale sulla concordia. Il sentimento di comunità della scorsa primavera, così spiccato e per certi versi sorprendente, si è perso per strada.

    Uno storico chiamato a raccontare l’Italia tra cinquant’anni non si limiterà a rievocare questo orribile 2020, ma si soffermerà sui cambiamenti, non sempre negativi, che esso ha imposto nella vita di tutti. I politici hanno dovuto affidarsi completamente agli scienziati (non l’avevano mai fatto prima d’ora); l’ormai imperante populismo, di conseguenza, è entrato in crisi; al “Vaffa-Day” è succeduto il “V-Day”, il giorno del vaccino, destinato a diventare il personaggio del 2021, in barba ai no-Vax. Agli uffici prestigiosi nelle aziende è succeduto il lavoro a distanza, anche da casa, con tanti saluti alle sedi di rappresentanza e con il rischio reale di un impoverimento del lavoro e delle relazioni umane.

    Il più recente sondaggio di Nando Pagnoncelli per conto del “Corriere della Sera” dà conto di quanto sia cambiato il nostro Paese in pochi mesi. I tre problemi considerati principali per l’Italia e indicati dalle persone interpellate vedono al primo posto occupazione ed economia, poi la sanità e sul terzo gradino il funzionamento delle istituzioni e la situazione politica. Giù in basso, nel sondaggio, sono lontanissime le questioni dell’immigrazione e della sicurezza, ancora imperanti meno di un anno fa.

    Il coronavirus ha avuto l’effetto di un acceleratore del tempo. In un battito d’ali sembra trascorsa una generazione. E tra le priorità percepite per la propria zona di residenza, rispetto al livello nazionale, avanzano i problemi di ambiente e mobilità. Como non fa eccezione e ci si stupirebbe del contrario, viste le sue questioni irrisolte. Al nostro territorio arriveranno dalla Regione 323 milioni e mezzo di euro per nuove strade, opere ferroviarie, sicurezza della viabilità e dei ponti. È una cifra significativa, presa a sé in assoluto, ma solo lontanamente in grado di soddisfare esigenze importanti. Iniziamo da lì, però. Siamo al palo e abbiamo bisogno di infrastrutture: la variante della Tremezzina, la prosecuzione della tangenziale, qualche parcheggio per la città, perso nel porto delle nebbie, il viadotto dei lavatoi da far approdare alla sicurezza, anche simbolicamente. Che il nuovo anno ci porti passi in avanti e qualche conclusione definitiva.

    Poi ci sono le grandi sfide, spuntate dal nulla nel 2020 e intuibili da ognuno: la vaccinazione, la più imponente mai fatta (inizia oggi anche a Como, con i primi vaccinati tra medici e infermieri); la pandemia da porre sotto controllo, evitando la già fin troppo profetizzata terza ondata; il piano dettagliato, che ancora manca, per avere i soldi promessi dall’Europa; il sostegno effettivo alle attività economiche messe in ginocchio e ai lavoratori a rischio, visto che a fine marzo finirà il blocco dei licenziamenti; il ritorno a scuola in maniera stabile.

    Da ultimo, ci sono le incognite: le varianti del virus e la possibile crisi di governo. Il nostro è l’unico Paese al mondo che la ipotizza, come se fosse normale, nel pieno di una pandemia. Ma noi siamo speciali e alcuni politici hanno un ego smisurato.

  • Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    di Adria Bartolich

    La scuola sta sopportando un grande disagio, certo non è sola. Molte attività subiscono lo stesso altalenante andirivieni di decisioni, contagi, problemi organizzativi, e altri ancora anche le pesanti ricadute economiche delle chiusure a causa dell’epidemia in corso.

    Sulla scuola, però, ci sono un’attenzione e uno stato di emotività che su altre istituzioni o attività non esistono. Sembra che la scuola sia diventata un catalizzatore di proiezioni ed emozioni positive o negative.

    Se a marzo, durante il primo lockdown, la speranza di uscirne presto aveva portato le persone a rappresentare l’attesa di una veloce inversione di rotta con una serie di riti scaramantici, cartelli e canzoni su finestre e balconi all’insegna dell’“andrà tutto bene”, le chiusure più recenti, alquanto incostanti, in concomitanza con la curva dei contagi che fatica a scendere, hanno visto una sorta di disincanto. Non siamo sicuri che “andrà tutto bene”, né sappiamo quando tutto ciò potrà finire.

    C’è uno stato d’ansia generalizzato che si percepisce anche senza bisogno di particolari rilevazioni statistiche. A marzo, quando scadrà la proroga ai licenziamenti, molte persone probabilmente perderanno il posto di lavoro artificiosamente mantenuto operativo pur in presenza di crolli della domanda e degli incassi.

    Aperture e chiusure danno la misura di quanto sia difficile contenere e tenere sotto controllo l’epidemia, cui si aggiunge la non chiarezza sulla reale portata dei contagi, ma anche un incomprensibile ritardo nell’adozione di misure radicali volte a riportare la situazione almeno a una parvenza di normalità.

    Tutto il nostro assetto istituzionale è sotto stress, riforme pensate e adottate sotto l’impulso del momento hanno mostrato tutti i loro limiti.

    Confusione, sovrapposizione delle competenze ma anche tagli orizzontali privi di senso e irrazionali, nella scuola come nella sanità, e modus operandi datati impediscono, soprattutto ora, un efficace funzionamento di molte strutture, che visioni politiche orientate alle necessità momentanee del consenso accentuano.

    Mancano insegnanti e viene presentata la chiusura del concorso entro il 2021 come un successo. Sul piano didattico si è ormai sperimentato di tutto: didattica in presenza, a distanza, mista, sincrona e asincrona; sforamenti di ore e anche dal profilo professionale.

    Il tutto senza che si sia pensato di mettere mano a una revisione complessiva e organica del contratto che ormai sembra quello dei lavoratori di Cartagine.

    Forse confidando che il virus duri poco. E speriamo che sia così. Ma se andasse per le lunghe?

  • Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    Contratti fermi ai tempi di Cartagine

    di Adria Bartolich

    La scuola sta sopportando un grande disagio, certo non è sola. Molte attività subiscono lo stesso altalenante andirivieni di decisioni, contagi, problemi organizzativi, e altri ancora anche le pesanti ricadute economiche delle chiusure a causa dell’epidemia in corso.

    Sulla scuola, però, ci sono un’attenzione e uno stato di emotività che su altre istituzioni o attività non esistono. Sembra che la scuola sia diventata un catalizzatore di proiezioni ed emozioni positive o negative.

    Se a marzo, durante il primo lockdown, la speranza di uscirne presto aveva portato le persone a rappresentare l’attesa di una veloce inversione di rotta con una serie di riti scaramantici, cartelli e canzoni su finestre e balconi all’insegna dell’“andrà tutto bene”, le chiusure più recenti, alquanto incostanti, in concomitanza con la curva dei contagi che fatica a scendere, hanno visto una sorta di disincanto. Non siamo sicuri che “andrà tutto bene”, né sappiamo quando tutto ciò potrà finire.

    C’è uno stato d’ansia generalizzato che si percepisce anche senza bisogno di particolari rilevazioni statistiche. A marzo, quando scadrà la proroga ai licenziamenti, molte persone probabilmente perderanno il posto di lavoro artificiosamente mantenuto operativo pur in presenza di crolli della domanda e degli incassi.

    Aperture e chiusure danno la misura di quanto sia difficile contenere e tenere sotto controllo l’epidemia, cui si aggiunge la non chiarezza sulla reale portata dei contagi, ma anche un incomprensibile ritardo nell’adozione di misure radicali volte a riportare la situazione almeno a una parvenza di normalità.

    Tutto il nostro assetto istituzionale è sotto stress, riforme pensate e adottate sotto l’impulso del momento hanno mostrato tutti i loro limiti.

    Confusione, sovrapposizione delle competenze ma anche tagli orizzontali privi di senso e irrazionali, nella scuola come nella sanità, e modus operandi datati impediscono, soprattutto ora, un efficace funzionamento di molte strutture, che visioni politiche orientate alle necessità momentanee del consenso accentuano.

    Mancano insegnanti e viene presentata la chiusura del concorso entro il 2021 come un successo. Sul piano didattico si è ormai sperimentato di tutto: didattica in presenza, a distanza, mista, sincrona e asincrona; sforamenti di ore e anche dal profilo professionale.

    Il tutto senza che si sia pensato di mettere mano a una revisione complessiva e organica del contratto che ormai sembra quello dei lavoratori di Cartagine.

    Forse confidando che il virus duri poco. E speriamo che sia così. Ma se andasse per le lunghe?

  • Cultura e turismo, le sfide del 2021

    Cultura e turismo, le sfide del 2021

    di Lorenzo Morandotti

    La comunità di lavoro transfrontaliera Regio Insubrica ha messo in agenda nella sua recente riunione di inizio dicembre in vista del 2021, sperando che le condizioni economiche imposte dalla pandemia siano favorevoli, un grande lavoro di squadra, gli “stati generali” della cultura e del turismo.

    Un momento di analisi e di sintesi che richiederà l’apertura di uno o più tavoli di dibattito e di confronto sulle strategie da mettere in rete per vendere pacchetti turistici integrati della regione dei laghi prealpini in modo appunto da abbracciare realtà diverse sotto il profilo amministrativo, politico e anche monetario. Euro e franco non sono la stessa cosa. E così come la gestione della cultura e del turismo.

    Sarà comunque un giro di boa importante, dopo tanti tavoli di confronto, cabine di regia più o meno auspicate o immaginate o disegnate sulla carta e financo varate ma poi messe nell’armadio con i ragni e i tarli per il poco o nullo uso. Tanta carta, tanta burocrazia, tante belle intenzioni ma questi stati generali, se mai si faranno, se ci sarà la volontà politica di andare oltre i proclami demagogici, almeno un risultato lo potranno ottenere. Metteranno insieme piccole, medie e grandi realtà, fondazioni e musei accanto ad associazioni dietro le quali spesso ci sono pochi volontari, operatori dello spettacolo e del cinema reduci dalla battaglia della pandemia, o almeno i pochi che saranno resistiti alla falcidie.

    Insomma questi stati generali faranno emergere in tutta la loro brutale evidenza le differenze tra un modo e l’altro di gestire, sui territori, due comparti ritenuti strategici e amministrati senza tenere in adeguato conto delle vere potenzialità. Metteranno a confronto assistenzialismo e libera impresa, capacità di investire e guardare alto, oltre le difficoltà, e faranno venire a galla le difficoltà strutturali e infrastrutturali. Tanto per fare un esempio pratico, chi ha siti internet e connessioni adeguate e chi è rimasto, non per sua colpa ma per scarsi incentivi, un primitivo digitale.

  • Disparità evidenti in settori chiave

    Disparità evidenti in settori chiave

    di Giorgio Civati

    Auna settimana esatta dall’avvio di questo secondo lockdown sono sempre di più i dubbi delle certezze, le domande rispetto alle risposte. Inevitabile, almeno in parte, vista la straordinarietà della drammatica situazione che stiamo vivendo. Ma qualcuna di queste domande e di questi dubbi merita una riflessione. Con un occhio a Como e alla sua specificità, come sempre, rilevando che, questa volta, chiuse siano due attività vitali per il territorio: l’abbigliamento e i mobili.

    Per contrastare questa seconda ondata, la decisione del governo è stata quella di limitare gli spostamenti individuali, di lasciare aperte le aziende e di chiudere il commercio. Chiudere? Non del tutto. Vediamo a caso alcuni degli esercizi commerciali aperti:  ferramenta, articoli sportivi, saponi e detersivi, lavanderie e tintorie industriali e non, fioristi, negozi di giocattoli, calzature e abbigliamento ma solo per bambini, elettronica e altri, compresi ovviamente tutti i punti vendita di generi alimentari.

    Dalla brugola alla pianta di geranio, dalla crema per il viso alla canottiera, passando per pc e sigarette, lampade  e lampadine, tute da jogging e molto altro. Di tutto, ma non abbigliamento e mobili, sacrificati insieme a ristoranti e bar sull’altare della sicurezza di tutti noi. E se una qualche logica sta dietro la decisione di toglierci la pizza o il risotto col persico, il caffè o lo spritz – non se ne abbiano a male le categorie citate, non è certo colpa loro ma al bar e al ristorante appare evidente che abbassiamo le difese – sinceramente non capiamo la motivazione di una serrata totale e indiscriminata dei punti vendita di mobili e di abbigliamento.

    Vero, ci sono situazioni pericolose di grandi catene, luoghi dove la folla in tempi normali era una certezza e occorre evitare che la situazione si ripresenti uguale anche ora. Ma la piccola boutique? E il negozio di abiti? Ancora, il negozio di mobili di quelle che sono le nostre migliori “firme” del settore sono posti di code e spintoni? A causa di ciò Como ha conseguenze pesanti: è una provincia che di legno e di tessile vive.

    Perché se anche le aziende sono aperte, se non hanno clienti, consumi e mercati di sbocco per chi potranno mai produrre? Qualche ingiustizia è da mettere in conto di questi tempi, qualche approssimazione pure. Ma questa chiusura a metà, a tre quarti, ci pare studiata non al meglio. Del resto è da marzo il nostro Paese stenta e si arrabatta in una crisi pesantissima di salute e soldi. Tessile e legno, mobili e abiti, a chi volete che importi, lontano da Como?

  • Alla ricerca della normalità perduta

    Alla ricerca della normalità perduta

    di Giorgio Civati

    Immersi come siamo tutti, in tutto il mondo, in questa crisi sanitaria, sociale ed economica causata dal Covid-19, abbiamo forse perso la capacità di guardarci intorno, di allargare lo sguardo e ampliare le riflessioni.

    Eppure, oltre il virus, c’è altro. Ancora e comunque anche molto altro. È evidente che l’emergenza è quella che conta di più, che le vite umane da salvare sono la priorità, che una ricerca di normalità dopo questa pandemia tragica è l’obiettivo primario.

    Però non l’unico, perché se ci limitassimo a questo, una volta sconfitto il Covid ci ritroveremmo in un mondo ancora peggiore di quello che già sta diventando. Per dirla chiaramente e brutalmente, se in tema di salute c’è chi muore per altre patologie messe da parte in nome dell’emergenza – ed è tristissimo ovviamente oltre che sbagliato – non deve accadere la stessa cosa alle nostre vite, alle città, alla società e al mondo in generale. Como, ma non solo, sembra sospesa. Le paratie proseguono il loro tormentato iter ma finalmente avanzano. Stessa storia per la variante della Tremezzina, la cui realizzazione è un po’ più vicina ora.

    Ma sono tante anche le vicende ferme, impantanate per inerzia e probabilmente anche per incapacità, non certo solamente per il periodo di emergenza, la Ticosa su tutte. Eppure quasi non ce ne rendiamo conto, sconvolti dalla situazione generale, dall’urlo delle sirene delle ambulanze che hanno ripreso a farsi sentire con tanta, troppa frequenza. Stessa situazione in campo economico: i danni del Covid sono ovviamente tantissimi, e pesanti saranno le conseguenze anche nei prossimi anni.

    Ma il mondo del lavoro non si è fermato: ha rallentato ma ad esclusione degli stop forzati ha voluto e dovuto andare avanti. Qualcuno non ce la farà, ma tante altre aziende ci saranno ancora dopo il Covid. Magari con prodotti modificati e su mercati differenti, probabilmente snellite di costi insopportabili a lungo andare, ma attivi. Cercare la normalità in un mondo che normale non lo è più è forse l’unica chiave di volta. Senza potersi abbracciare, avvicinare, senza nemmeno potersi frequentare, con i volti mascherati per proteggerci ma che inesorabilmente anche ci dividono, abbiamo spesso inventato nuovi modi di relazionarci con gli altri, differenti abitudini, diversi modi per esternare sensazioni e affetti.

    Allo stesso modo il business sta cercando una qualche normalità, rendendosi conto che molte attività e parecchi settori faticheranno a ripartire, che addirittura certe abitudini potrebbero essere cambiate per sempre, ma che un qualche futuro ci deve essere, ci sarà.

    Non saremo migliori. La prima ondata di infezioni, il lockdown primaverile e l’estate esagerata di molti ci hanno dimostrato tutti i limiti che ha l’essere umano. Ma saper guardare oltre la pandemia, anche verso un futuro tutt’altro che roseo, resta l’unica possibilità.

  • Come reagiamo di fronte al male

    Come reagiamo di fronte al male

    di Lorenzo Morandotti

    Siamo alle prese con un virus che si nutre di socialità, che sta   in mezzo ai sapiens come il topo nel formaggio. Ma l’atteggiamento di fronte a queste sventure che capitano ai vivi  varia molto e non è storia solo di oggi. «C’era anche chi pareva stranamente indifferente al proprio destino, o perlomeno aveva la mente tanto ottenebrata dalla sciagura che passava le giornate in uno stato di stordimento, concentrandosi solamente sulle attività primarie e apparentemente inconsapevole del disordine circostante. Altri ancora rifuggivano le cose terrene e si dedicavano soltanto alle attività spirituali, vivendo nell’ascesi più assoluta. Alcuni di loro si isolavano completamente da ogni contatto sociale».

    Sembra cronaca  attuale ma siamo nel Suffolk del XIV secolo in una piccola realtà rurale, Walsham, dove la peste  è arrivata dopo aver devastato per due anni il resto d’Europa. Circa metà della popolazione sarà portata via dal morbo diffuso dalle pulci dei topi, mentre allora  la colpa  era attribuita a qualcosa di soprannaturale, a peccati e mancanze meritevoli di punizione (e a tal proposito il  signore del luogo aveva un rimedio ritenuto infallibile: annusare spesso miasmi di   latrina per tenere alla larga la pestilenza). E intanto più nessuno mieteva i campi, accudiva e curava il bestiame. Intere proprietà andavano redistribuite fra gli eredi.

    Da allora nulla sarebbe stato più come prima: il vecchio sistema feudale iniziava a subire   colpi fatali, e intanto maturava quella coscienza delle masse subalterne che avrebbe poi portato ad altre conseguenze rivoluzionarie nei secoli seguenti. Cambiamenti epocali, allora causati da una pulce e ora da un microscopico nemico, come quelli che viviamo ora, anche se non ce ne rendiamo conto pienamente forse perché l’ansia e l’assuefazione fanno perdere il senso del tempo e delle cose. Il passo citato viene da La morte nera, libro che ha la potenza narrativa del romanzo ma fa parlare fonti storiche.

    Lo ha pubblicato nel 2008 in Italia Bruno Mondadori  e si deve a uno storico dell’università di Cambridge, John Hatcher. Una lettura istruttiva in questi tempi, oltre a  classici letterari come La peste di Camus e i nostri Promessi  sposi che il primo lockdown ci aveva costretti a considerare in una luce di attualità e avevamo  evidentemente riposto negli scaffali  troppo in fretta.