Categoria: Opinioni & Commenti

  • Clausola Covid, scuola e lavoro pubblico

    Clausola Covid, scuola e lavoro pubblico

    di Adria Bartolich

    La cosiddetta “clausola Covid” con cui si chiudono i contratti per le supplenze dei docenti assunti a tempo determinato, pare sia oggetto di parecchie lamentele da parte dei candidati supplenti. In realtà negli articoli che parlano di questo tema vengono chiamati precari, ma il termine è alquanto impreciso e parecchio abusato.

    Chiariamo. Per precario si intende qualcuno che reiteratamente viene assunto, con un contratto a tempo determinato, e licenziato alla fine dell’anno scolastico per poi essere riassunto l’anno successivo magari sulla stessa cattedra per più di tre anni. Un supplente invece, può essere nelle condizioni sopra descritte, quindi a tutti gli effetti un precario, ma anche una persona che per la prima volta in vita sua accede a una supplenza, cioè qualcuno che semplicemente sta cercando una prima occupazione o più genericamente di inserirsi nel mondo del lavoro, condizione comune ai lavoratori di molti comparti del privato. Prima hai contratti temporanei, poi se ce la fai, un’assunzione a tempo indeterminato.

    Cosa dice la clausola Covid? In sostanza chiarisce che i rapporti di lavoro per i quali si dovesse ricorrere a una risoluzione anticipata a causa del Coronavirus, saranno chiusi per giusta causa senza diritto ad alcun indennizzo in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza. Naturalmente i lavoratori in questione, se avessero maturato i requisiti necessari, avrebbero diritto alla disoccupazione come tutti gli altri a pari condizioni.

    Vi chiederete dove sia lo scandalo, e sinceramente me lo chiedo anch’io. Infatti non è qui ma sta nel fatto che il supplente smetterà di essere tale dopo anni: occorre scorrere lunghe e complicate graduatorie, avrà passato le sue giornate a studiare per conseguire costosissime certificazioni informatiche e linguistiche o di altro genere, spendendo un sacco di soldi, nella speranza di racimolare qualche punto. Le graduatorie si formano sulla base del punteggio e bisogna farne tanto, o con il servizio o con i titoli. Il vero scandalo è questo. L’inserimento in graduatoria crea l’illusione di una possibilità di sistemazione, le graduatorie sono in molti casi zeppe di persone, mentre in altre c’è il deserto dei Tartari, dato che si formano non sulla base di vere richieste ma in modo del tutto arbitrario.

    C’è la graduatoria, hai il titolo e ti iscrivi; se ci sia o meno il posto nella realtà è un’altra storia. Intanto alimenti un mercato fiorente di corsi di formazione più o meno online e più o meno seri per conseguire attestati e quindi punti, sul quale tutti tacciono. Tanto prima o poi ci sarà una sanatoria, cioè un bel concorso riservato. Però con la clausola Covid per la prima volta saranno impossibili i ricorsi e si inserisce il principio della “necessità aziendale” anche  nel lavoro pubblico.

  • Capitale della seta e delle aree dismesse

    Capitale della seta e delle aree dismesse

    di Marco Guggiari

    È dei giorni scorsi il servizio di Etv e di questo giornale sull’Hotel Petit Chateau di viale Innocenzo XI, chiuso da oltre dieci anni e preda del degrado. È lì, in una parte della cosiddetta tangenziale al confine ormai con il centro cittadino, non lontano dalla stazione ferroviaria San Giovanni. Di fronte a sé ha l’ex Danzas, anch’essa inutilizzata da tempo.

    L’occasione è buona per soffermarsi più in generale sulla questione delle aree dismesse a Como. Il loro numero, come vedremo, è molto elevato in proporzione alle altre città della Lombardia.

    In proposito basta consultare le schede della Regione. La provincia di Como ha 93 aree di questo tipo ufficialmente censite, quante quella di Brescia. In tutto il territorio lombardo, ne ha meno soltanto della provincia di Milano, che ne conta 139. La città capoluogo lariana da sola, poi, ha 41 aree dismesse, poco meno di metà di quelle dell’intera provincia. Per dare un’idea, la città di Varese ne ha 12, Lecco 5.

    Certo, Como è stata più industriale, ma Brescia non lo è certo di meno, eppure ha solo 17 aree dismesse. Milano, la metropoli, 25. I numeri danno il segno di un cambiamento d’epoca, perché la maggior parte degli edifici dismessi sono di tipo produttivo, industriale o artigianale. Como è stata una straordinaria capitale della seta. Poi tutto è cambiato, tant’è che nella nostra città, già da anni, il terziario ha superato per numero di occupati l’industria.

    Qualcosa evidentemente, visti i dati riferiti e le proporzioni in regione, non ha funzionato nei decenni, nelle amministrazioni che si sono succedute qui e nel rapporto tra queste e i privati. Il cambiamento, oltre a lasciare sul terreno molte fabbriche, non si è pienamente compiuto. Non ha determinato una quantità ragguardevole di recuperi di stabili e di terreni da destinare a nuove funzioni e attività. E questo non è buon segno, è un po’ come lasciare abbandonati luoghi un tempo pieni di vita, dopo un disastro o dopo una scorribanda nemica.

    La Regione Lombardia avvisa che le aree dismesse non residenziali rappresentano un potenziale danno territoriale, sociale ed economico e per il contesto ambientale ed urbanistico. Per promuoverne il recupero dà ai Comuni la facoltà di procedere sollecitando direttamente i proprietari a presentare progetti e, in caso di mancato riscontro, di intervenire avviando varianti urbanistiche per il recupero stesso.

    Di più, l’articolo 40 bis della Legge regionale 18 del 2019 prevede che una delibera del consiglio comunale possa stabilire che i privati proprietari degli immobili abbandonati da oltre 5 anni debbano intervenire entro il triennio successivo, decorso vanamente il quale, il Comune può imporre l’abbattimento delle strutture.

    Il fatto è che il buon esempio ai privati dovrebbe darlo l’ente locale, ma questo avviene solo in parte. Da quanti decenni ormai Como ha le sue storiche aree dismesse? La Ticosa è la madre di tutte. Ma pensiamo anche al Politeama, in gran parte di proprietà comunale, al palazzetto di Muggiò…

    Va pur detto che alcune aree private sono state nel frattempo oggetto di progetti d’intervento e che in qualche caso questi sono già in corso o sono stati compiuti. Ma non basta.

    Questo è un anno funestato. Abbiamo avuto il Covid e il confronto con la società comasca per le proposte sull’area ex Ticosa, per ridirne una, la più simbolica, è saltato, benché fosse stato annunciato dal sindaco nelle ultime ore del 2019. Non dobbiamo però rinunciare a riprendere il filo del discorso.

  • Cattedre vuote e trasferimenti

    Cattedre vuote e trasferimenti

    di Adria Bartolich

    Tra le tante sigle delle associazioni di categoria a tema, esiste anche il Coordinamento Nazionale Docenti Abilitati, una cui esponente ha dichiarato che il fenomeno delle cattedre vuote e della cronica assenza degli insegnanti nelle regioni del Nord Italia sarebbe da attribuire a quanto previsto dal Decreto Legge n. 126/2019, poi convertito in legge, che prevede il blocco quinquennale di tutti i neo-immessi in ruolo.

    Occorre sottolineare che esso non riguarda le assegnazioni provvisorie che garantiscono annualmente comunque un rapido spostamento a fronte di ragioni personali – per esempio, il ricongiungimento familiare – e che è stato varato per arginare i continui spostamenti di insegnanti i quali, immediatamente o quasi, dopo l’immissione in ruolo chiedevano di tornare nelle loro zone di provenienza.

    In realtà, almeno fino alla legge sulla Buona scuola, anno che vide la più grande assunzione di massa di precari dell’ultimo decennio, una regolamentazione c’era e si trattava della permanenza di tre anni in una sede dopo l’assunzione in ruolo, spesso comunque corretta da assegnazioni provvisorie e utilizzi.

    Dopo la Buona scuola, anche se non a causa di essa, vennero pressoché liberalizzati i trasferimenti e concesse le assegnazioni provvisorie degli insegnanti di ruolo anche sui posti di sostegno, cosa che produsse una migrazione di massa verso il Sud e un aumento vertiginoso, soprattutto in alcune zone del Paese, di certificazioni di disabilità.

    I posti del Nord appena riempiti si svuotarono e da cinque lunghi anni non sono più stati riempiti.

    Naturalmente quanto sostenuto dal Coordinamento di cui sopra evita accuratamente di fare la cronistoria di quanto è successo prima del decreto, costretto a normare per legge quello che non si riusciva a concordare nella contrattazioni tra le parti, Miur e sindacati.

    L’intricato meccanismo fa il paio con il sistema altrettanto pernicioso delle assunzioni. Non solo: oltre al Decreto ciò che impedirebbe la copertura delle cattedre al Nord sarebbero gli stipendi troppo bassi, condizione che evidentemente riguarda anche gli insegnanti del Nord. In sintesi, siccome la condizione salariale non ci soddisfa, chiediamo di tornare a casa dove la rete famigliare garantisce un diversa copertura.

    C’è da chiedersi a questo punto perché gli insegnanti del Nord dovrebbero invece accontentarsi dei loro salari, visto che il costo della vita è più alto, e anche se i sindacati possono continuare a barattare assunzioni numerose con stipendi insufficienti.

    I fautori di queste rivendicazioni siano consapevoli del fatto che questi fini ragionamenti aprono un’autostrada alla richiesta di gabbie salariali.

  • Cultura “antivirus”, esempi virtuosi

    Cultura “antivirus”, esempi virtuosi

    di Lorenzo Morandotti

    La sfida sanitaria ed economica numero uno l’abbiamo vissuta lo scorso inverno e gli strascichi li pagheremo a lungo. Adesso ci aspetta la numero due (e speriamo ultima), un’altra stagione fredda caratterizzata da incertezza su tutti i fronti, e a pagarne le spese sarà ancora una volta anche quello culturale, che paradossalmente è anche quello che dovrebbe garantire più spirito di identità, motivo di unione e condivisione di valori e di istanze.

    La voglia di resistere, di guardare oltre le difficoltà, di sperare in un futuro migliore è esemplare nei fatti dimostrati da tanti operatori del territorio che si sono occupati  in estate e si occupano anche nei prossimi mesi di programmare eventi e spettacoli nel rispetto delle regole sanitarie e senza mai dimenticarsi che siamo appesi tutti a un filo.

    Encomiabile tra le tante iniziative – difficile elencarle tutte –  la voglia di ripartenza in chi ha più responsabilità e più carico simbolico, ossia il Teatro Sociale di piazza Verdi, inaugurato nel 1813, il palcoscenico più prestigioso della provincia lariana. Sono stati mesi di lavoro intenso per riprogrammare date e interpreti.

    La prima della stagione “Notte” nel segno della grande musica sarà sabato prossimo quando alle 20 il sipario si alzerà sul “Messia” di Händel, oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra  riletto da Mozart. Da piazza Verdi sarà lanciato così un grande segno di speranza che invita a riflettere sul destino dell’umanità intera, un monumento fatto di voci e note.

    Come non condividere allora quello che un teatro più piccolo ma parimenti agguerrito scrive per lanciare la sua prossima stagione, il Cineteatro di Chiasso? «È  un  anno  difficile  questo  2020:  un  anno  che mette in  discussione  ogni  certezza  e  che  ci costringe  a  confrontarci  con  un  futuro  nuovo,  dai  contorni  sfocati  e  che  può  anche  incutere timore. La  cultura  in  senso  ampio – dalla  musica  al  teatro,  dalla  danza  all’arte – può darci conforto, trasformandosi in punto fermo nella vita di ognuno di noi, un faro che aiuti a ritrovare la strada di casa, un attimo che ci faccia stare bene».

  • Alchimie teoriche e realtà quotidiana

    Alchimie teoriche e realtà quotidiana

    di Adria Bartolich

    In questi giorni le scuole stanno predisponendo gli istituti per il ritorno alle lezioni in presenza a settembre, e non è un compito facile. Tutte le magagne strutturali e di sistema che la buona volontà  rimedia  in tempi di funzionamento ordinario, non saranno più  rimediabili  nei consueti modi in un  tempo  che richiede  misure straordinarie come quello del Coronavirus.

    Lasciamo stare per un attimo ogni preoccupazione relativa alla recrudescenza del Covid-19 che non è priva di fondamento ed è presente nella nostra vita quotidiana;  anche se la situazione dovesse prendere una buona piega e seppur lentamente normalizzarsi, rimane però quella relativa alla gestione di tutte le misure preventive che si dovranno attivare all’inizio dell’anno scolastico con regole stringenti e situazioni strutturali che, invece,  ne ostacoleranno  l’applicazione.

    Senza perdersi in dettagli, i problemi sono sostanzialmente di  due tipi: la situazione degli edifici scolastici, compreso il fatto che molte delle nostre scuole sono vecchiotte e spesso prive della manutenzione necessaria  per rendere  gli spazi funzionali,  e quella degli organici e del personale di cui dispongono le scuole,  non  in teoria ma nella realtà. Tutti coloro che hanno a che fare con la scuola  sanno bene che queste due condizioni raramente si verificano in maniera ottimale, soprattutto contemporaneamente.

    Nonostante tutte le alchimie per aggiustare i criteri, metri statici e metri dinamici, con adozione di quello statico che prefigura situazioni improbabili e cioè ragazzi che stanno fermi, le difficoltà a riorganizzare il lavoro scolastico  per sventare  le subdole ed insidiose  azioni   del virus  ci saranno, soprattutto  nel garantire lo stesso monte ore, le misure di sicurezza e la condizione imprescindibile  della presenza di tutto il  personale per garantire il servizio minimo.

    Non parliamo di efficienza ma semplicemente di garanzie che il servizio possa rimanere attivo, sapendo che il periodo non è uno dei migliori per scherzare. Un bidello assente o nullafacente creerebbe  dei rischi sociali immensi, così come un docente che non si presentasse a scuola – non sempre per negligenza ma anche per necessità –  soprattutto nella prima ora del mattino e  lasciasse  l’istituzione nell’impossibilità  effettiva di procedere a una sua  tempestiva sostituzione.

    Si dice che si potranno chiamare  anche studenti dell’università, ma già si fa da tempo. Molte cattedre sono libere e non riusciamo a coprirle, ma il ministro dell’Istruzione dovrebbe dire anche due parole su coloro che, pur avendo una cattedra, non si presenteranno in servizio. Niente di punitivo, per carità, ma misure che garantiscano la  loro presenza sì.

  • Dolorosi fallimenti e poderose opportunità

    Dolorosi fallimenti e poderose opportunità

    di Mario Guidotti

    Secondo voi perché soprattutto i sindaci, a cominciare dal meneghino “zio” Beppe Sala, insistono perché la gente torni alle sedi di lavoro? Perché mollare lo smart working (termine pessimo, lavoro da casa si capisce benissimo) e tornare ai propri uffici?

    Perché i sindaci e non gli economisti, delle cui dichiarazioni i giornali ribollono quasi pari a quelle dei virologi?

    Le aziende hanno annusato il business: buona produttività senza consumare energia, affitti, pulizie e, udite udite, buoni pasto. Sì, il punto è questo, le città si sono svuotate e chi ne soffre maggiormente sono i bar del centro, i ristoranti, i self service. I lavoratori a casa non consumano più, i centri sono deserti. Quindi si impoveriscono la città, e Como non fa eccezione, perché siamo una società che si erge sui consumi. Se non consumiamo non viviamo, almeno sui livelli precedenti. Ed è su questo che serve riflettere.

    È giusto, e lo diciamo per semplificare il problema, lavorare (soprattutto) per consumare i ticket restaurant? Non dovrebbe la nostra società avere maggiori ambizioni costruttive, di avanzamento, di crescita, che quindi non dipendere da dove tante persone lavorano, ma come e quanto?

    Certo, siamo dispiaciutissimi per esercenti, commercianti, ma è pensabile concepire i centri urbani solo come “mangiatoie” per turisti (che latitano) e dipendenti pubblici e privati (pure)?

    È da un decennio che si parla quasi solo di “food”, bollicine e shopping come principali asset produttivi, che richiedono poi di essere consumati.

    Non possiamo però non vedere che sta accadendo qualcosa di gigantesco a livello sociale, di improbabile reversibilità.

    È un fenomeno che gli storici chiamano “periodizzazione”, ossia la trasformazione di un’epoca in un’altra. La nostra generazione ha attraversato continui cambiamenti, soprattutto dettati dalla tecnologia, ma, seppur veloci, graduali e progressivi.

    Mai niente di traumatico, anche grazie alla mancanza di conflitti su scala planetaria. Ma quello che sta accadendo a causa di un virus invisibile ha pochi precedenti, forse l’hanno visto i nostri nonni nel passaggio dalla cosiddetta Bella Epoque, tra la fine del diciannovesimo secolo e l’alba del successivo, al mondo post-bellico.

    Ma se le crisi portano dolorosi fallimenti, hanno con sé poderose opportunità. Se Como ed altre città faranno fatica a mantenere i propri bar, ristoranti e “movide” aggregate, perché non tornare a costruire, ristrutturare, reinventare, magari a misura d’uomo? Che sia la volta di orientare il lavoro di molti nel sistemare la zona ex-Ticosa? Il lungolago? I viadotti e la rete viabilistica?  La zona stadio?

    E perché non dare una sistematina alle scuole pubbliche? Magari con una storica e indimenticabile intesa pubblico-privato. Questi sono progetti per i soldi che l’Europa ci presta!

    Che sia venuto il momento di uscire da una mera società dei consumi, che ha poi difficoltà a smaltire i residui degli stessi, e tornare a pensieri veramente produttivi, orientati a costruire e soprattutto lasciare qualcosa alle prossime generazioni?

  • Concorsi, trasferimenti e cattedre fantasma

    Concorsi, trasferimenti e cattedre fantasma

    di Adria Bartolich

    E finalmente abbiamo anche i dati relativi alle cattedre  rimaste vuote dopo i  recenti trasferimenti degli insegnanti; quelle vacanti al Nord sono quasi il 60% del totale nazionale. Per tutti gli ordini di scuola – fatta eccezione per quella dell’infanzia, unico dato che si colloca sotto il  50% del totale delle disponibilità,  comunque con  un  abbondante  49% – i posti rimasti vuoti  nelle regioni del Nord Italia sono oltre il 50% con punte del 66% per  i posti comuni  e di quasi il 76%  per quelli di sostegno nella scuola primaria,  pur essendo un organico complessivo, quello del Settentrione, che corrisponde a circa il 35% del totale delle cattedre sul territorio italiano.

    In altre parole, seppur in presenza di un probabile raddoppio,  nei fatti, dei gruppi classe per questioni igienico- sanitare , affronteremo questo nuovo anno ancora, e per l’ennesima volta, con un numero di docenti insufficiente alle esigenze didattiche e  di sorveglianza pressanti . Teniamo presente che se  la didattica a distanza ha consentito di coprire  più che dignitosamente le esigenze delle scuole medie superiori e in molti casi anche inferiori, per  i bimbi della primaria e dell’infanzia, ovviamente, non è stata così efficace e pervasiva per ovvie ragioni,  che vanno dai tempi d’attenzione alla necessità di non esporre troppo precocemente e lungamente i bambini alla visione di dispositivi e schermi, e non ultime quelle didattiche e cognitive sulle modalità d’apprendimento per gli alunni di quella fascia di età che sono prevalentemente legate all’esperienza e al contatto relazionale.

    A tutti i sostenitori  della necessità di un sistema d’istruzione  nazionale unico,  tra i quali mi metto anch’io, e i fautori dell’oggettività dei concorsi come sistema d’assunzione, tra i quali io non ci sono per molte ragioni, chiedo come sia possibile che in quasi 80 anni di scuola della Repubblica regolamentata in modo così rigoroso, si sia determinata una situazione per cui nei posti comuni, cioè sulle classi, al Nord manchino  insegnanti in oltre il 55% dei posti e a Sud non si raggiunga nemmeno il 23% delle cattedre vuote, mentre per il sostegno al Nord manca quasi il 70% degli insegnanti e al Sud neanche l’11%.

    Adesso ci si scandalizza perché sembra che il prossimo anno verranno chiamati anche i ragazzi dell’università ad insegnare. Guardate che al Nord  è così da tempo!  Se il ministero, invece di predisporre le statistiche dal punto di vista del personale e del numero dei posti, le guardasse dal punto di vista degli studenti, degli alunni scoperti,  la disfunzionalità di questo  sistema delle assunzioni, peraltro unico al mondo, sarebbe evidente, ma come si sa non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere .

  • Cultura, stati generali in permanenza

    Cultura, stati generali in permanenza

    di Lorenzo Morandotti

    Sperando che la seconda ondata del coronavirus non arrivi né in Lombardia né altrove, questa fase di ripartenza estiva  dovrebbe essere  l’occasione buona per sfruttare il tempo  concesso in maniera costruttiva.   La cultura con le sue varie connessioni con il turismo, settore strategico per questo territorio,  già prima della pandemia soffriva di varie carenze strutturali (assenza di pianificazione, mappatura provvisoria delle forze in campo), prima di tutte l’incapacità di fare squadra  (magari con energie meno disperse con   conseguenti economie di scala).

    Una lezione che spero sia stata capita e che ora impone di riprendere il cammino  dando a tutti le condizioni di poter dimostrare il proprio talento, ovviamente ascoltandone le ragioni e legandole il più possibile in una rete che superi le barriere ideologiche e divisioni che non hanno più ragione d’essere.

    Alcuni fenomeni degli ultimi tempi vanno in questa direzione – i territori di Como e Lecco si sono alleati con un calendario unico di eventi, come se fossero tornati unica provincia come prima degli anni Novanta  –  ma è presto per cantar vittoria.

    La  chiave delle settimane che ci siamo lasciati alle spalle è il magico binomio “stati generali” già da tempo  speso sul fronte della cultura comasca: non passa assessore che non annunci l’esigenza di ascoltare il territorio convocandolo a palazzo salvo poi dover fare i conti con i soldi che mancano, e sul Lario anche sulla  endemica incapacità di lavorare in gruppo  su pochi ma densi progetti. Non c’è tema, argomento, ambito che non  faccia imbattere in una quantità di soggetti che procedono sullo stesso sentiero ma rigorosamente ognun per sé, in parallelo, senza mai toccarsi, talvolta guardandosi in cagnesco se non mettendosi programmaticamente i bastoni fra le ruote o le mani in faccia metaforicamente parlando (ma è accaduto anche di peggio).

    Non è libero mercato, è ridicola guerra fra poveri. Così non si andava da nessuna parte prima e ora che tutto è peggiorato, dai rapporti umani al tessuto economico, ora che il Paese intero è a un bivio, il rischio è di vanificare quel poco o tanto che i singoli  pure hanno realizzato di buono. Nel settore della bellezza e del sapere  che dovrebbe essere   fiore all’occhiello di un Paese che ha avuto in eredità dal passato oltre la metà dei beni culturali del pianeta, gli stati generali sarebbero da indire   in permanenza, a tappeto e  soprattutto a tutela dei più fragili   in campo, i più esposti alla  selezione darwiniana che porterà a prevalere non i migliori in assoluto  ma chi saprà meglio adattarsi.

    Dal basso come suol dirsi si moltiplicano le iniziative per fare coesione. Ad esempio manifestazioni come quella dei teatranti del 15 giugno davanti al Teatro Sociale di Como, che con suoni e colori  hanno portato   in piazza, e una delle più belle   d’Italia, le difficoltà di un settore tra i più fiaccati dalla crisi peggiorata dal virus.

    Compito della buona politica, se ce ne è ancora traccia, sarebbe  ascoltare e indirizzare le energie in campo, mentre  sarebbe compito del territorio nel suo complesso trovare le risorse adeguate per non far  spegnere o addirittura morire quelle energie.

  • Covid-19, chi non si vaccinerà paghi il conto delle cure sanitarie

    Covid-19, chi non si vaccinerà paghi il conto delle cure sanitarie

    di Mario Guidotti

    Tutta l’umanità aspetta come la manna dal cielo il vaccino anti-Covid-19, che ci libererà dalle catene di un possibile contagio, che ci restituirà i nostri volti oscurati dalle mascherine (per chi le indossa correttamente), che ci ridarà la nostra vita interrotta lo scorso mese di febbraio.

    Tutta, proprio tutta la popolazione? No, secondo un sondaggio recente e credibile almeno un 20% di italiani, che beninteso rappresentano una parte marginale dell’umanità, ma noi restanti abitanti del Bel Paese dobbiamo conviverci, un quinto dicevamo afferma che non si sottoporrà alla vaccinazione.

    Per motivi ideologici (ci mancavano tanto i no-Vax), perché convinti di un disegno delle multinazionali, perché  sospettosi di una trama della Spectre (per chi vede i film di James Bond), perché non hanno visto le file di bare uscire da Bergamo, perché non hanno sentito le telefonate con il sindaco per liberare gli ospedali dalle innumerevoli salme. Perché ignoranti, aggiungiamo noi.

    Beh, dirà il lettore, chissenefrega, che si prendessero il Covid, gli altri si vaccineranno e ne saranno immuni.

    Ci sono almeno un paio di problemi però.

    Primo, esistono dei malati che non possono essere sottoposti a vaccinazione perché immunodepressi in quanto affetti da malattie particolari o sottoposti a terapie specifiche che rischieranno di essere contagiati dal 20% che potrà farla ma non la eseguirà.

    Secondo, il Sistema Sanitario dovrà attrezzarsi di un’organizzazione e strumenti per gestire chi si ammalerà di Covid, nonostante potrebbe evitarlo preventivamente.

    Avremmo almeno tre soluzioni da proporre. La più logica in un Paese normale (appunto, noi non lo siamo) sarebbe l’obbligatorietà del gesto. Senza se e senza ma. Assolutamente compatibile con un regime democratico perché una volta tanto sarebbe bello mettere in primo piano la salute della maggioranza e non i capricci di una minoranza (nota bene, non sarebbe l’unico contesto, ma non andiamo fuori tema).

    In alternativa si potrebbe comunque vietare l’accesso ai luoghi pubblici per chi non è vaccinato, ma sentiamo già i piagnistei di chi sventola diritti scolastici e lavorativi inalienabili ed anche ludici perché no.

    In ultimo, se proprio non abbiamo altre idee, tocchiamo i portafogli. Spieghiamo.

    È limpido che il nostro Sistema curerà tutti. Lo facciamo con assassini, stupratori, pedofili, non lasceremo senza cure neppure chi non si vaccinerà contro il Coronavirus, giammai!

    Daremo loro posti letto, respiratori, antivirali, antibiotici, cortisonici, anti-infiammatori, anti-coagulanti, Tac, cateteri, sonde e sondini, ogni ben di Dio sanitario. Ma dopo manderemo loro a casa il conto da pagare di tutto questo.

    Basta saperlo prima. Anzi basta farlo firmare prima: non ti vaccini? Firma che lo fai a tue spese.

    Perché già dobbiamo pagare la Sanità per chi non la finanzia (leggi: evasori), non vorremmo farlo anche per chi volutamente si espone ad un rischio evitabile.

  • Cosa abbiamo e cosa manca

    Cosa abbiamo e cosa manca

    di Marco Guggiari

    Se facciamo il gioco di chiederci cosa abbiamo e cosa manca in questa strana primavera sotto scacco collettivo, i conti non tornano. Abbiamo ancora il coronavirus e sapevamo che sarebbe stato così, sebbene i contagi siano in calo. Da una settimana, con l’avvio della fase due, abbiamo maggiore libertà. Abbiamo quindi qualche rischio in più rispetto a prima per via dell’aumento dei nostri contatti, ma stiamo dimostrando di avere anche un discreto senso di responsabilità individuale, con le solite e inevitabili eccezioni.

    In attesa dei dati che a breve ci diranno com’è andata finora, mancano però molte altre cose. Mancano ancora le mascherine, nonostante le pubbliche promesse che sarebbero state disponibili nelle farmacie fin da lunedì scorso. Invece sono tuttora introvabili perché, ci dicono, non si era tenuto conto dei necessari controlli e delle certificazioni. In ogni caso, scopriamo che quando le mascherine saranno disponibili, saranno gravate dall’Iva. Se ci pensate, è pazzesco dal punto di vista dell’ottusità culturale. Lo Stato non ce la risparmia nemmeno in un caso come questo.

    Mancano i tamponi, perché non ci sono abbastanza reagenti. Mancano i test sierologici per capire se un cittadino è stato contagiato e ha sviluppato anticorpi. Qua è là, le diverse Regioni ne propongono alcuni; altri sono allo stadio di laboratorio. Manca un punto fermo, un riconoscimento di validità generale, un via libera alla diffusione.

    Manca anche la famosa applicazione che, installata sui telefoni cellulari, dovrebbe tracciare eventuali contatti con persone poi risultate affette da Covid-19.

    Manca, incredibilmente, il “Decreto aprile” sugli aiuti economici, che essendo ormai maggio inoltrato, quando finalmente vedrà la luce cambierà nome.

    È la riprova che manca anche un sufficiente sforzo di armonia e di consapevolezza nel governo. Prevale la litigiosità dettata dalle ambizioni di potere e da qualche ego smisurato, dentro e fuori dalla maggioranza. Non una grande interpretazione dell’interesse generale, obiettivamente.

    Manca infine uno sguardo ampio, l’abbozzo di un disegno per costruire un futuro diverso per sanità, scuola, produttività e lavoro dei giovani.

    Intanto, i numeri comaschi ci dicono alcune cose preoccupanti. Secondo uno studio divulgato in settimana, i contagiati nella nostra provincia potrebbero essere fino a 64mila, vale a dire oltre il 10% dell’intera popolazione locale. Poi, la variazione del numero dei morti nel mese di marzo, rispetto alla media dei cinque anni precedenti certifica che nel Comasco c’è stato in incremento del 64,2%. Siamo passati da 668 a 1.008 decessi (dati Istat). Significa 21° posto nella tragica classifica italiana.

    Da ultimo, ma non ultimo, sono aumentati i poveri. Nella sola città capoluogo il sindaco ne ha stimati 3mila in più rispetto all’epoca pre-Covid dei primi due mesi dell’anno.

    Consolano invece i racconti di chi è guarito dopo essere stato in punto di morte. Quasi sempre contengono riferimenti alla convinzione di un nuovo inizio, di una vita che ricomincia, per la quale ogni giorno è un regalo. Un messaggio che può aiutare tutti a essere migliori in questa lunga battaglia.