Categoria: Opinioni & Commenti

  • Cosa fare per proteggerci?

    Cosa fare per proteggerci?

    di Mario Guidotti

    Che cosa sta succedendo per quanto riguarda l’infezione da
    nuovo Coronavirus? Quello che ci aspettavamo. La malattia si sta diffondendo
    nel mondo, non poteva essere diversamente nonostante le eccezionali misure di
    contenimento messe in opera, e mantiene livelli di contagiosità medio-elevati,
    come c’è da aspettarsi da un’infezione che si trasmette per via respiratoria.
    Fortunatamente, anche se si fa ovviamente per dire quando questo è il destino,
    presenta tassi di mortalità relativamente bassi, tra il 2 ed il 3%. Questo ad
    oggi, non è molto diverso da quanto comunicato un mese fa, e speriamo non ci
    siano spiacevoli novità, perché quando si parla di Medicina la prudenza delle
    previsioni deve essere massima in quanto gli andamenti dipendono da una serie
    di variabili biologiche assolutamente imprevedibili. Ci piacerebbe che questo
    fosse stampato nella pietra, anche dei Tribunali.

    Come previsto, non era della comunità cinese che si doveva
    avere paura, ma di chiunque venisse dalle zone di focolaio epidemico. Ma qual’è
    la novità che ci inquieta tanto?

    Che ci sono i primi contagi avvenuti sul suolo italiano.
    Cioè la trasmissione del virus è avvenuta nei nostri ambienti  e c’è stato un periodo “finestra” durante il
    quale gli attuali ammalati non sapevano di essere infetti e quindi hanno
    vissuto: giocato, fatto sport, lavorato, viaggiato, mangiato, parlato con tante
    altre persone.  E quindi, che pericoli ci
    sono per tutti noi? La premessa è che allo stato attuale non ci sono cure
    specifiche per chi se ne ammala. Certo, si fanno antivirali (aspecifici),
    antibiotici (per prevenire sovra-infezioni batteriche), ossigeno, sostegno
    generale della persona, e se serve ventilazione artificiale (per coloro che
    attualmente sono in Terapia Intensiva).

    Un eventuale vaccino è allo studio, ma nella migliore delle
    ipotesi sarà pronto tra 8-12 mesi, quindi non certo per la pandemia in essere.
    Il migliore presidio è il contenimento, che vuol dire isolamento, quarantena,
    sorveglianza attiva. Tutte misure che sanno di medioevo, pestilenze manzoniane,
    lanzichenecchi e anni bui. Ma tant’è.

    Non è una cattiva lezione per l’uomo tecnologico,
    globalizzato, del 21° secolo, che credeva di governare tutto, di avere una
    soluzione per tutto. Telemedicina, nanomolecole, trapianti, farmaci biologici,
    anticorpi anti-tutto, fino al capodanno scorso la razza umana si sentiva
    invincibile. È arrivata la lezione da un microbo che si vede a malapena con
    super-microscopi. Ne avremmo fatto volentieri a meno. Che cosa fare? Quello che
    dicono le Autorità Sanitarie.

    Chi non ha contattato persone a rischio continui la propria
    vita. Ci saranno limitazioni in certi ambienti, vedi per esempio gli aeroporti,
    o i Pronto Soccorso e gli ospedali che hanno alzato il livello di attenzione.
    Al minimo dubbio, cioè in casi di sintomi influenzali e respiratori in chi ha
    avuto recenti contatti sospetti, stare a casa e chiamare i servizi di Emergenza
    e Urgenza.

  • Cosa si aspettano i medici dai malati

    Cosa si aspettano i medici dai malati

    di Mario Guidotti

    Visita medica. Atto secondo, che cosa si aspettano i medici dai malati (o presunti tali). Primo: puntualità. Non è solo peccato dei clinici, sempre più spesso i pazienti hanno copiato le brutte abitudini che sono tipiche dei primi. Anzi, è stato calcolato che uno su cinque “buca” proprio l’impegno. Non si fa, e sono allo studio dei correttivi penalizzanti questo costume disdicevole, che ricade sulla lunghezza delle famigerate liste d’attesa.

    Secondo: cari pazienti, portate le documentazioni di esami e visite precedenti, almeno degli ultimi anni, e non solo quelle attinenti il disturbo oggetto dell’appuntamento. Almeno le terapie, possibilmente scritte decentemente (non per l’estetica ma per la comprensione). Vietata la frase: “ma tanto avete tutto nel computer”. Può andare bene per un soggetto al sesto controllo nello stesso ambulatorio, non per quelli che saltano da un ospedale all’altro per avere tempi d’attesa ridotti o più pareri sullo stesso disturbo. Terzo: siate sinceri.

    Credete sia cosa scontata? Ma secondo voi, i medici sono lì per condannare o per capire e in seguito possibilmente risolvere? Chissenefrega se strabevete, stramangiate o cos’altro fate, ma ditelo! Abbiamo fatto i medici proprio per non giudicare, e più invecchiamo più osserviamo e comprendiamo la fragilità della persona umana.

    Ma non c’è niente di peggio che imbrogliare il curante, perché è un altro modo per ingannare se stessi, anzi peggio, per i risultati che ne conseguono. Quarto: parliamone. Di che cosa? Di tutto quello che serve, veramente tutto, ma… e qui viene il quinto desiderata: siate sintetici. Avete davanti un’altra persona, con limiti fisici ed è dimostrato che dopo dieci minuti l’attenzione dell’interlocutore si dimezza. Perché non prepararsi all’esposizione del quadro clinico? Che vuol dire: partire dal sintomo e successivamente descrivere il resto, possibilmente evitando ripetizioni ed esagerazioni per catturare l’attenzione.

    Esempi? “Dottore, non sto più in piedi”, un secondo dopo essere entrato in studio sulle proprie gambe. Sesto: se non siete d’accordo sulle decisioni, ditelo subito, anche di questo ne parliamo. Niente di peggio riguardo la salute che dire una cosa e farne un’altra. Settimo: non è la durata della visita la sua migliore qualità. “Mi ha fatto proprio una bella visita: un’ora intera”.

    Chiedetevi invece se il medico ha capito, e possibilmente risolto il quadro clinico. Ottavo: prima di uscire dall’ambulatorio assicuratevi di aver compreso tutto: indicazioni, esami da fare, terapie. È importantissimo! Nono: non verificate su Internet, piuttosto chiedete al vostro medico e allo stesso modo, non arrivate “già saputi” sulla malattia che avete avendola appresa da Dottor Google venendo da noi solo per chiedere il tal esame tipo supermercato.

    Il bugiardino? Leggetelo sì. Decimo e ultimo altrimenti la facciamo lunga: è pur sempre una persona che cura una persona, con tutti i suoi limiti e pregi, non dimenticatelo.

  • Abbattere i muri per crescere

    Abbattere i muri per crescere

    di Mario Rapisarda

    La nostra iniziativa editoriale

    La frontiera, nell’immaginario collettivo, è quella del West. Il simbolo della conquista americana di territori selvaggi, la storia di esploratori, cercatori d’oro e pistoleri. Con tutte le contraddizioni di un mondo nuovo, ancora in divenire e quindi imperfetto.

    Molto più prosaicamente, alle nostre latitudini la dogana per molte persone ha rappresentato il mito dell’ordine svizzero, il pieno oltreconfine, magari con il contemporaneo acquisto di cioccolato e (almeno un tempo) dei mitici dadi per il brodo. Per alcuni la grande finanza, le banche. Senza dimenticare l’imponente capitolo del contrabbando.

    I valichi hanno poi assunto nel recente passato un significato molto più profondo. Politico, culturale. Divisivo. Oggi più di una forza politica, in modo velleitario, pensa ai muri come unico modo per risolvere i problemi. Dall’immigrazione al mercato del lavoro, dalla “tutela della razza” al credo religioso. In un mondo globale, un mare di fesserie.

    Il “Corriere della Frontiera” vuole essere l’opposto. Vuole contribuire ad abbattere i muri e ricordarci quanto, insieme, possiamo fare. L’Insubria è una vasta area che ricomprende le province italiane di Como, Varese e Lecco e il Canton Ticino oltreconfine. Unirsi, dialogare, diventare “massa critica” è importante per superare i limiti e le difficoltà di un territorio sempre più in affanno e sfruttare appieno tutte le opportunità che queste latitudini ci offrono.

    Il seme c’è. Alcune associazioni di categoria e istituzioni hanno già iniziato questo percorso (pensiamo ad esempio a Confcooperative Insubria, Cisl dei Laghi, Uil del Lario e Camera di Commercio); altre (come Confindustria) ci stanno pensando.

    Ragionare anche con i vicini elvetici è un ulteriore tassello di tale cammino: la lingua è la stessa, i problemi logistici e infrastrutturali anche, il tema dei frontalieri riguarda quasi 70mila persone.

    Questa iniziativa editoriale vuole essere un piccolo strumento per contribuire a un ineludibile percorso di crescita e di collaborazione. Da soli, ormai è evidente, non si raggiunge alcun obiettivo.

  • Dire, non dire, tacere

    Dire, non dire, tacere

    di Dario Campione

    È durissima la vita negli uffici stampa. Soprattutto quando si deve dire per non dire. O quando non si può proprio dire. Ieri pomeriggio, da Palazzo Cernezzi, è arrivata nelle redazioni dei media locali la nota ufficiale sull’incontro tra i partiti della maggioranza.

    Un condensato del nulla, che certamente la politica ha imposto ai suoi comunicatori. Per tutti, valga questo passaggio: «Si è naturalmente parlato degli argomenti che sono al momento motivo di dibattito e che sono stati inquadrati nell’ambito di una dialettica politica che si arricchisce grazie ad un costruttivo contraddittorio».

    Il conte Mascetti non avrebbe potuto trovare una sintesi migliore. Ora, in casi del genere – il mio è un garbato consiglio, può anche essere preso e gettato nel cestino, non ne avrei a male – è sempre meglio tacere. Non dire. Come spiegava Arthur Schopenhauer in un preziosissimo libretto sulla scrittura e sullo stile, «ogni parola superflua agisce in modo contrario al suo scopo. È sempre meglio omettere qualcosa di buono che non aggiungere cose insignificanti».

  • Aspettative stellari e lavori sottoqualificati

    Aspettative stellari e lavori sottoqualificati

    di Adria Bartolich

    Nell’epoca probabilmente 
    più falsa della storia del pianeta, la rincorsa alla  certificazione è da considerare ormai  un’attività necessaria.  Falsi profili social, false notizie, menzogne
    che ripetute all’infinito diventano verità: insomma, dove tutto è falso e
    falsificabile  l’attestazione di
    rispondenza a verità fatta con l’autenticazione con tanto di firma, bollo o
    altro, che certifica l’attendibilità di qualcosa, rappresenta certamente un
    elemento rassicurante.

    Il problema è, 
    però,  che essendo un’esigenza
    molto diffusa, anche la certificazione rischia di essere, se non falsa, quanto
    meno non esattamente corrispondente alla realtà, in quanto merce commerciabile
    al pari di molte altre. D’altra parte l’essenza di un’attestazione è come se
    certificasse in modo  inoppugnabile
    l’inadeguatezza ad occupare un posto o ad accedere ad un ruolo. Abbiamo visto
    le polemiche sollevate dai titoli di studio 
    di alcuni ministri considerati  da
    gran parte dell’opinione pubblica non all’altezza della carica.

    Non parlerò di questo bensì, al contrario, di cosa invece
    produca l’attestazione di competenze, più o meno realistica, sia nella dinamica
    dell’accesso al lavoro sia nel suo svolgimento. Capita infatti che, nella  penuria di occasioni occupazionali che
    contraddistingue il nostro Paese in questo periodo storico, molte persone
    provviste di certificazione (diploma, laurea, master, dottorato o altro) si
    trovino nell’incresciosa situazione di cercare, e alcune volte trovare, una
    sistemazione lavorativa non corrispondente al titolo conseguito. Dove non viene
    considerata la capacità di svolgere un lavoro ma la certificazione minima per
    accedervi, succede. Anche abbastanza spesso. Accade inoltre che la persona si
    senta sminuita nello svolgere una mansione sottoqualificata rispetto al titolo
    posseduto e ciò corrisponde più o meno al ragionamento, soprattutto nel  sistema pubblico, “Cerco di prendermi un
    posto di ruolo e poi si vedrà”.

    Nello svolgimento della vita quotidiana questo significa che
    si possono avere collaboratori scolastici (i vecchi bidelli) diplomati o
    laureati, oppure maestri che insegnano in virtù di un diploma  e hanno conseguito lauree anche diverse da
    quella di Scienze della formazione (il titolo oggi necessario per insegnare
    alla scuola dell’infanzia o alla primaria) perché inseriti a forza da ricorsi e
    controricorsi nei ranghi della scuola primaria o dell’infanzia. Oppure docenti
    delle scuole superiori  o medie inferiori
    che hanno fatto per anni gli assistenti sottopagati all’università, al seguito
    del barone di turno senza mai che costui si degnasse di proporli per una
    sistemazione definitiva.

    Siamo cioè pieni di gente con aspettative stellari e una
    vita quotidiana ordinaria, gente che svolge il lavoro per cui è pagata con un
    atteggiamento da un nobile decaduto: sono qui ma il posto è altrove. Bene. Lo
    Stato non deve dare un posto ma un lavoro. Prima ci arriviamo meglio sarà per
    tutti.

  • Como e Lugano divise sul fronte degli spettacoli

    Como e Lugano divise sul fronte degli spettacoli

    di Lorenzo Morandotti

    Paolo Conte in piazza Riforma (dove d’estate suonano gli ospiti di uno dei festival jazz più rinomati d’Europa), e poi i Negrita e i mitici Jethro Tull al Palacongressi, Maurizio Pollini al centro polivalente Lac, Giorgio Panariello in scena per festeggiare i suoi primi sessant’anni. Un cartellone variegato e per tutti i  gusti, quello che presenta per il 2020 Lugano sul finire del 2019. Cito un po’ alla rinfusa, mescolando appuntamenti che hanno varie date, dalla primavera all’autunno del prossimo anno, solo per indicare quanto il fronte spettacoli sul Ceresio sia vivace. Basta andare su un motore di ricerca dedicato ai concerti e alle prevendite per notare che Lugano è una piazza viva, mentre da questa parte della frontiera diciamo che non si brilla di medesimi entusiasmi. Non è che si stia fermi,  a Como,  per carità, istituzioni come il Teatro Sociale permettono con i loro ospiti (di recente Noa e Manuel Agnelli) di pareggiare il conto, però la sensazione di un divario netto resta palpabile. E non c’è una sola causa.

    Facile imputare ai vicini svizzeri una maggiore capacità economica, che si può tradurre nella possibilità di pagare cachet onerosi. Temo che qui sia una serie di concause a venire al pettine: un circuito virtuoso non si attiva schiacciando un bottone come si fa con le proiezioni di Natale sui monumenti di Como, che strappano emozioni momentanee ed epidermiche, col retrogusto (ma è un parere personale) di avere usurpato una fama altrui, ossia di avere piegato pagine di storia come fossero aeroplanini. C’è il problema degli spazi urbani da gestire, ad esempio. Como ha uno stadio a lago unico, è eresia immaginarvi come si è tentato un tempo anche dei concerti? Senza contare Villa Olmo con il suo parco, le piazze Cavour e Volta, e se apriamo il capitolo delle aree dismesse salta fuori la magagna dell’ex Politeama.

    Quanti metri quadrati e cubi, insomma, di luoghi che potremmo dedicare a concerti, aprire ad eventi qualificati in un contesto che si vanta di fare del turismo culturale un “brand” come si suol dire e si limita a farne un “brunch” che non appaga del tutto, e magari resta pure sullo stomaco. Evidentemente il modello di sviluppo che è attuato a Como non ha bisogno di concerti e personaggi come Paolo Conte e simili, altrimenti si sarebbe mobilitato per ospitarli, è questa l’amara constatazione. Prendiamone atto e andiamo avanti.

  • A Natale le città diventano variopinti mercati per adulti

    A Natale le città diventano variopinti mercati per adulti

    di Agostino Clerici

    È già Natale. Dopo un anno è ancora Natale. Due espressioni indicative di due diverse percezioni del tempo, che privilegiano ora la sua fuggevolezza ora la sua ciclicità. E così ogni anno il 25 dicembre arriva, sempre uguale e mai lo stesso. In fondo, nel suo sostrato cristiano questa festa ha la pretesa di trascinare il percorso di un anno di vita dentro un giorno che ne abbia a rappresentare insieme la delusione e la speranza, la lamentela e l’appagamento, il dolore e la gioia. In un crocevia di lacrime e sorrisi, da un Natale all’altro qualcuno che aveva festeggiato con noi non c’è più e qualcuno che è appena nato è entrato nel vortice della vita. A Natale si può sperimentare il massimo della condivisione con la sua fuggevole allegrezza, ma si può avvertire anche la fitta della solitudine con la sua durevole sofferenza. E magari quello di quest’anno è il Natale buono in cui un moto di condivisione riuscirà a sanare il vuoto di una solitudine.

    Insomma, se non ci fosse, Natale bisognerebbe inventarlo. I cristiani ci hanno messo quasi tre secoli per pensare a questa data simbolica per festeggiare la nascita di Gesù Cristo, e hanno scelto una festa romana introdotta nel 274 dall’imperatore Aureliano nel solstizio d’inverno per celebrare il Sole Invitto. Le giornate cominciavano ad allungarsi, la luce vinceva sulle tenebre, il dio Sole che sembrava sconfitto dimostrava sul campo d’essere invincibile (proprio come l’esercito di Roma): bisognava adorarlo e aiutarlo a crescere (da qui l’usanza di accendere fuochi nella notte).

    Senza saperlo l’imperatore romano, rendendo culto a un astro celeste, aveva inventato la festa di Natale, creando l’occasione simbolica per il suo sorgere: il Cristo, infatti, è il vero «sole invitto» e comincia a vagire in una mangiatoia nel momento in cui luce e tenebra si equivalgono, facendo propendere la bilancia della storia per sempre verso la luce. Questa confusione tra la teologia pagana e quella cristiana continua a sussistere, tanto è vero che oggi qualcuno, avendo pensionato Gesù Bambino e anche Babbo Natale, cerca di far risorgere l’antico simbolismo pagano e parla non più di Natale ma di festa della luce invernale.

    Sta di fatto che, pur essendo vero che i cristiani hanno rubato ai pagani la loro festa per innestarvi il proprio simbolismo, la festa del Sole Invitto ebbe al massimo una cinquantina d’anni di vita mentre il Natale cristiano dura da diciassette secoli. E di rivoluzioni e involuzioni ne ha conosciute tante. C’è la sensazione che, dopo l’esplosione del consumismo (a partire dagli anni Settanta) che ha messo nell’ombra i contenuti cristiani del Natale e ha laicizzato anche l’Avvento, da qualche anno a questa parte sia cominciato il lento declino della centralità dei bambini a Natale. Le città – compresa Como – per quasi due mesi sono dei grandi e variopinti mercati per adulti, in cui pare che il bisogno primario della società sia quello di mangiare. Le luminarie con le loro scenografie sparate sugli edifici affascinano e insieme stordiscono i sensi.

    Eppure del Natale, quello vero, oggi c’è ancora più bisogno e dobbiamo continuare ad augurarcelo sereno e buono. Se possibile, facendo prevalere i desideri sulle nostalgie. Perché la vita corre avanti, fuggevole e veloce, ma ogni tanto rallenta e si ferma. Come ogni anno a Natale.

  • Como, trent’anni di media classifica

    Como, trent’anni di media classifica

    di Giorgio Civati

    E dunque è Milano la città italiana dove si vive meglio. Lo
    ratifica il quotidiano economico “Il Sole 24 Ore” che, qualche giorno fa, ha
    diffuso i risultati dell’indagine giunta ormai alla trentesima edizione e che,
    valutando molteplici parametri, incorona il luogo della Penisola in cui la
    qualità complessiva della vita è più alta.

    È una buona notizia, o forse lo è solo a metà. È una buona
    notizia perché Como in fondo è periferia del capoluogo meneghino, ci si arriva
    velocemente – traffico e code e treni del secolo scorso permettendo, vabbè – e
    sono parecchi i lariani che gravitano su Milano oltre che per questioni di
    lavoro anche per svago, cultura e tempo libero. Non lo è poi tanto, una buona
    notizia, perché il confronto con Como è comunque impietoso: 40° posto per la
    città di Volta e di quel lago ammirato in tutto il mondo ma anche delle paratie
    costosissime e ancora di là da venire dopo decenni, della tangenziale monca,
    delle strade malmesse, di quello stesso lago che affascina lasciato troppo
    sporco, della Ticosa come altra grande incompiuta, in un elenco che potrebbe
    continuare.

    Insomma, rilevare che Como galleggia intorno alla metà della
    classifica dell’indagine sulla qualità della vita non è una grande
    consolazione. È vero che nel 1990, primo anno di questa analisi, era al 41°
    posto e che non siamo mai andati molto su e nemmeno giù, ma questa
    considerazione non fa che peggiorare la nostra sensazione. Una sensazione di
    mediocrità, di inadeguatezza, di mancanza di visioni e strategie, di carenza di
    grandi progettualità, di pecche magari piccole ma continue, che restano
    irrisolte negli anni e addirittura nei decenni. Se, infatti, Como e il Lario
    hanno un successo sempre più ampio di immagine con apprezzamenti a livello
    planetario, questo succede “nonostante” i comaschi. Nonostante tutti noi.

    Trent’anni di media classifica nella qualità della vita, tra
    ricchezza e ambiente, sicurezza e sociale, significano che questo siamo. Che
    non brilliamo. Che meglio sarà dura fare anche in futuro. Altra considerazione
    sconsolante: tre decenni significano almeno un paio di generazioni di politici
    e amministratori, dalla Dc alla Lega passando per Psi e 5 Stelle. Vecchie sigle
    ormai sparite e nuovi schieramenti apparentemente rampanti. Ma poco è cambiato.
    Quasi niente. Qualcuno tra quelli che ci amministrano e ci rappresentano ha
    ottenuto qualcosa – la terza corsia dell’autostrada per esempio – e qualcun
    altro è finito inquisito, ma fatti salvi i casi singoli in bene o in male, Como
    ci pare statica.

    Colpa di tutti e quindi di nessuno? Chissà, quel che ci pare evidente è che Dio o il caso, secondo le convinzioni personali, ci ha dato molto. E che noi comaschi sappiamo fare poco di più se non vivere di rendita. Peccato, anche perché pure le rendite più cospicue prima o poi possono finire.

  • Borghi lariani da salvare con la “rigenerazione urbana”

    Borghi lariani da salvare con la “rigenerazione urbana”

    di Lorenzo Morandotti

    Quella dei piccoli borghi è un’Italia dove vivono 10 milioni e mezzo di cittadini e che rappresenta oltre il 55% del territorio nazionale, fatto di zone di pregio naturalistico, parchi e aree protette. Un tesoro inestimabile che un Paese dove ha sede  il 60% dei beni culturali mondiali dovrebbe tutelare con amore. Lo spiega con dovizia di immagini e schede un bel volume, Borghi rinati. Paesaggi abbandonati e interventi di rigenerazione di Carlo Berizzi e Lucia Rocchelli, edito da “Il Poligrafo”.

    Un tema che merita una diffusa e attenta riflessione anche sul Lario, la rinascita dei borghi: siamo territorio variegato che assiste impotente alla sparizione delle antiche cascine (si vedano gli studi dell’architetto  Tiziano Casartelli per il territorio canturino) e l’abbandono delle aree montane ma dove per contro molti giovani si impegnano ad esempio nelle attività agricole, come ha segnalato una recente statistica di Coldiretti.

    Ogni gita anche breve nella provincia lariana può portare a casa il ricordo di un piccolo agglomerato urbano o di un suo rimanente frammento, di storia antica o antichissima, che meriterebbe un intervento di recupero, sia pubblico che privato.

    Il libro cui si accennava dà molti esempi di interventi virtuosi in borghi italiani e internazionali, Svizzera compresa (mirabile l’intervento “olistico” negli abitati grigionesi di Surselva e della Val Lumnezia). Non dà conto di esperienze lariane ma è   lettura educativa anche per progettisti e urbanisti del Comasco (basti pensare all’esempio aureo del  borgo di Solomeo, qualificato dall’imprenditore Brunello Cucinelli, che è stato ospite alla manifestazione green cernobbiese “Orticolario” qualche anno fa). E il libro ci ricorda ad esempio che pure un architetto star internazionale come Rem Koolhas «dopo aver coltivato per decenni i deliri metropolitani sta lavorando a una grande mostra sulle trasformazioni del mondo rurale, prevista nel 2020 al Guggenheim di New York». Un libro prezioso anche perché di rigenerazione urbana si occupa  una legge   approvata dalla maggioranza del consiglio regionale lombardo nella seduta di martedì 12 novembre.

    Obiettivo della norma è il recupero di immobili o porzioni di quartieri, attraverso iniziative di rigenerazione con ricadute positive su abitabilità e attrattività dei centri abitati (anche in termini turistici e non solo urbanistici), nonché sul piano della sicurezza e della vivibilità urbana. Lotta al degrado dunque ma anche ripensamento dei luoghi in cui abitiamo e in cui un tempo si abitava e che possono tornare a essere motivo di interesse non solo romantico ma anche economico. Se ne parlerà il 19 dicembre alle 17 in un apposito convegno dell’Ance di Como sulla rigenerazione come «sfida per il territorio», aperto a tutti e non solo agli addetti.

  • Abbiamo perso il treno Recuperiamo il binario

    Abbiamo perso il treno Recuperiamo il binario

    di Marco Guggiari

    Ci sono precise omissioni alla base del caos che contraddistingue i fine settimana comaschi del mese di dicembre. La città bloccata lo sarebbe decisamente di meno se solo si fosse fatta per tempo quella che, per comodità, potremmo chiamare “operazione treni”. Ma il non pensato e, di conseguenza, il non fatto, hanno prodotto l’imbuto di traffico che tutti viviamo sulla nostra pelle e nei nostri polmoni.

    Saremo più espliciti. Da decenni, almeno tre, nei convegni dedicati alla mobilità e negli appelli degli amministratori più avveduti, si parla di stazione di interscambio ad Albate e di parcheggi di corona. Como è una città con un bacino di utenti troppo piccolo per poter ambire a una vera metropolitana e quella leggera ha finora prodotto progetti interessanti sulla carta e molte chiacchiere in aria. In questa condizione, però, si sarebbe potuto almeno ricorrere già da tempo all’uso intelligente dei binari esistenti, degli scambi e di spazi per posteggiare le auto, più facili da reperire in periferia che in centro. Se Comune, Regione e Ferrovie avessero fatto questa scelta, oggi ci ritroveremmo con alcuni risultati importanti: Como sarebbe decongestionata dai serpentoni di macchine in coda, saremmo meno soffocati dallo smog e, da ultimo, ma non per importanza, avremmo fatto un salto culturale, imparando a non arrivare in auto nella convalle.

    Non è ancora successo e si è persa una grande occasione. Questa incapacità di agire fa il paio con altri errori commessi sul fronte del trasporto pubblico. Quando, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, è stata dismessa la rete filoviaria, lo si è fatto in barba a qualunque capacità di previsione di tipo ambientale e relativa all’evoluzione successiva della mobilità. Quando, sul finire degli anni Ottanta, è stata politicamente accettato il declassamento della stazione ferroviaria internazionale di Como San Giovanni, si è gravemente e colpevolmente sottovalutato l’effetto che ne sarebbe conseguito in termini di marginalità e riduzione di servizi. Quando, avvenuto questo, la giunta del sindaco Alberto Botta aveva spinto per la stazione unica tra Como e Chiasso ma in seguito, nel primo lustro del nuovo millennio, questa opzione è stata considerata irrilevante, si è deciso di non creare sinergie e utilità di pubblico interesse.

    Ci fermiamo qui, dopo l’ennesimo sabato di collasso viabilistico. Abbiamo volutamente mischiato cose diverse tra loro, ma in definitiva si tratta di tasselli che avrebbero potuto concorrere a fissare un edificio di mobilità più ordinata e razionale. Così non è stato e, benché sembri improbo tagliare oggi quel traguardo, ribadiamo l’istanza. Amministratori e politici accorti ve ne sono? Muovano un passo avanti e se ne facciano carico.