di Adria Bartolich
Nell’epoca probabilmente
più falsa della storia del pianeta, la rincorsa alla certificazione è da considerare ormai un’attività necessaria. Falsi profili social, false notizie, menzogne
che ripetute all’infinito diventano verità: insomma, dove tutto è falso e
falsificabile l’attestazione di
rispondenza a verità fatta con l’autenticazione con tanto di firma, bollo o
altro, che certifica l’attendibilità di qualcosa, rappresenta certamente un
elemento rassicurante.
Il problema è,
però, che essendo un’esigenza
molto diffusa, anche la certificazione rischia di essere, se non falsa, quanto
meno non esattamente corrispondente alla realtà, in quanto merce commerciabile
al pari di molte altre. D’altra parte l’essenza di un’attestazione è come se
certificasse in modo inoppugnabile
l’inadeguatezza ad occupare un posto o ad accedere ad un ruolo. Abbiamo visto
le polemiche sollevate dai titoli di studio
di alcuni ministri considerati da
gran parte dell’opinione pubblica non all’altezza della carica.
Non parlerò di questo bensì, al contrario, di cosa invece
produca l’attestazione di competenze, più o meno realistica, sia nella dinamica
dell’accesso al lavoro sia nel suo svolgimento. Capita infatti che, nella penuria di occasioni occupazionali che
contraddistingue il nostro Paese in questo periodo storico, molte persone
provviste di certificazione (diploma, laurea, master, dottorato o altro) si
trovino nell’incresciosa situazione di cercare, e alcune volte trovare, una
sistemazione lavorativa non corrispondente al titolo conseguito. Dove non viene
considerata la capacità di svolgere un lavoro ma la certificazione minima per
accedervi, succede. Anche abbastanza spesso. Accade inoltre che la persona si
senta sminuita nello svolgere una mansione sottoqualificata rispetto al titolo
posseduto e ciò corrisponde più o meno al ragionamento, soprattutto nel sistema pubblico, “Cerco di prendermi un
posto di ruolo e poi si vedrà”.
Nello svolgimento della vita quotidiana questo significa che
si possono avere collaboratori scolastici (i vecchi bidelli) diplomati o
laureati, oppure maestri che insegnano in virtù di un diploma e hanno conseguito lauree anche diverse da
quella di Scienze della formazione (il titolo oggi necessario per insegnare
alla scuola dell’infanzia o alla primaria) perché inseriti a forza da ricorsi e
controricorsi nei ranghi della scuola primaria o dell’infanzia. Oppure docenti
delle scuole superiori o medie inferiori
che hanno fatto per anni gli assistenti sottopagati all’università, al seguito
del barone di turno senza mai che costui si degnasse di proporli per una
sistemazione definitiva.
Siamo cioè pieni di gente con aspettative stellari e una
vita quotidiana ordinaria, gente che svolge il lavoro per cui è pagata con un
atteggiamento da un nobile decaduto: sono qui ma il posto è altrove. Bene. Lo
Stato non deve dare un posto ma un lavoro. Prima ci arriviamo meglio sarà per
tutti.
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