Quei giorni di pioggia e paura. Quando in provincia di Como non si poteva mangiare verdura e uscire di casa era un incubo

già temibile, divenne una realtà concreta da cui difendersi.Il giorno 3 del mese di maggio, la situazione precipitò. Letteralmente, cioè cadendo al suolo sotto forma di piogge dense e incessanti. Cariche di isotopi radioattivi.In particolare, fu la zona della Valle Intelvi a rimanere per lunghe ore sotto quell’acqua sporca e malata, destinata a impregnare terreni e corsi d’acqua oltre che ad accarezzare con mano velenosa chiunque si esponesse alle gocce “maledette”. I quotidiani del giorno dopo aprirono le prime pagine con una notizia identica e inquietante: «Proibiti latte e verdura fresca». L’emergenza radioattiva, a quel punto, era una realtà con cui fare i conti. Anche a tavola.Molte mamme e papà, il lunedì successivo, 5 maggio, decisero di non mandare i figli a scuola, moltissime attività all’aperto vennero sospese o rinviate a data da destinarsi. Circolava indisturbata, per le strade e i campi della tranquilla provincia lariana, una signora venuta dall’Ucraina e chiamata Paura.Scattò un’imponente macchina di soccorso e assistenza. Le verifiche sul livello di radioattività raggiunto in provincia vennero affidate in gran parte ai vigili del fuoco, attrezzati con sofisticati – almeno per l’epoca – spettrometri gamma messi a disposizione dall’ospedale Sant’Anna. I livelli si erano alzati, in pochi giorni, di 4-5 volte rispetto alla norma, ma senza superare mai le soglie realmente pericolose per la salute umana. Eppure la psicosi galoppò per giorni, almeno fino alla sera del 14 maggio, quando al Tg1 della 20 il premio Nobel Carlo Rubbia dichiarò che l’emergenza per l’Italia si poteva considerare finita. E anche sul Lario si iniziò a tirare un lungo sospiro di sollievo.