Categoria: Opinioni & Commenti

  • Contagi nelle scuole, dati insufficienti

    Contagi nelle scuole, dati insufficienti

    di Adria Bartolich

    Incominciamo ad avere dati più precisi sui contagi nelle scuole, almeno per quanto riguarda gli alunni. Li ha forniti in questi giorni la Società italiana di pediatria. Dall’inizio dell’epidemia causata dal Covid-19 i casi segnalati, tra i bambini e gli adolescenti, sono stati 126.622, cioè il 12% del totale dei contagiati.

    Nella stragrande maggioranza dei casi il contagio ha riguardato i ragazzi dai 10 ai 19 anni, circa 90.000, e in misura molto inferiore i bimbi, 36.622, circa un quarto del totale dei contagi scolastici.

    Per la maggior parte di loro, il contagio si è manifestato in forme cliniche lievi, come si sa i giovani sono molto più resistenti all’attacco del virus rispetto alle persone di una certa età che tendono ad avere altre patologie e a volte sono immunodepressi.

    La differenza tra i due dati, quello relativo agli alunni delle scuole di primo grado e quello riferito alle scuole secondarie, perché l’età dei casi più numerosi riguarda soprattutto queste ultime, è prevalentemente da riferirsi alle diverse abitudini.

    I bambini più sono più protetti, non solo dall’età ma anche dalla vita che conducono: hanno meno relazioni sociali e, soprattutto, arrivano a scuola a piedi,  accompagnati dai genitori se abitano vicino, oppure in macchina con uno dei genitori.

    Ci manca però, e non pare ci siano rilevazioni precise a proposito, il dato relativo ai contagi che hanno interessato la popolazione adulta delle scuole, cioè personale di segreteria, collaboratori scolastici e in particolare i docenti che hanno il contatto diretto con le classi e, come sappiamo, sono abbastanza avanti con l’età: 49 anni l’età media e di costoro il 59% ha oltre 50 anni in tutti gli ordini di scuola, con piccole variazioni tra i livelli: 51 alla materna, 50 alla primaria, 52 nella secondaria di 1° grado e 51 in quella di 2° grado (dati dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).

    Solo incrociando il dato dei contagi dei ragazzi con quello degli insegnanti e del personale scolastico potremo avere davvero un’idea più precisa del livelli di diffusione dei contagi nelle scuole; però l’ultima rilevazione diffusa dal ministero dell’Istruzione (Miur) risale al 10 ottobre quando si parlava di soli 5.793 casi tra gli studenti, numero decisamente diverso da quello fornito ora dai pediatri, e 1.020 casi tra gli insegnanti.

    Sappiamo di diverse scuole  chiuse per la presenza di docenti risultati positivi al coronavirus.

    Forse sul tema si dovrebbero fornire dati più precisi, visto che sappiamo che il Covid lascia strascichi sul fisico una volta contratto e che l’obiettivo, oltre alla doverosa tutela dei ragazzi e delle ragazze, dev’essere anche la protezione della salute dei lavoratori.

  • Controllateci, non siamo capaci di autogestirci

    Controllateci, non siamo capaci di autogestirci

    di Giorgio Civati

    Come siamo arrivati, di nuovo, in questa situazione? Come ci siamo ritrovati, dopo la chiusura totale di marzo e aprile e l’euforia – immotivata – dell’estate, in una situazione sanitaria ancora fuori controllo, con nuove misure restrittive e preoccupazioni diffuse sia per la tenuta del sistema sanitario che per la stabilità economica ma anche sociale, e una nuova chiusura che parte proprio oggi?

    Le risposte sono molteplici, così come le responsabilità e le leggerezze, a ogni livello. Su un aspetto, però, ci pare utile riflettere ed è quello che riguarda una incapacità diffusa di molti di noi, quasi tutti, a rispettare le indicazioni, attenersi alle precauzioni consigliate, fare ciò che va fatto.

    Alle regole, a quanto pare, obbediamo:  ci hanno chiusi in casa in primavera e lì siamo rimasti. Poi, però, ci hanno detto che si poteva uscire e fare quasi tutto ma con le dovute cautele e abbiamo sbracato. Distanziamento, mascherine, lavaggio frequente delle mani sono tornate un optional quando invece erano ancora una necessità.

    Colpa dell’uomo “medio” e mediamente imbecille, categoria nella quale rientriamo più o meno tutti compreso chi scrive. E, però, se siamo qui, oggi, in questo secondo lockdown, chi si è assunto la responsabilità di governarci, da Roma al minuscolo comunello, doveva saperlo che siamo inaffidabili. E quindi provvedere.

    Parliamo di controlli: tra marzo e aprile con pochissime persone in giro era facile, ma con la riapertura – regolata, parziale, da gestire con mille attenzioni almeno sulla carta – proprio i controlli sono diventati troppo blandi. E noi, tutti noi o quasi, abbiamo vissuto con una leggerezza che non ci era consentita, che non ci doveva essere consentita.

    Dunque, va dato per tristemente assodato che non siamo capaci più di tanto di autogestirci. Non stiamo invocando multe e magari galera, ma semplicemente indicazioni, raccomandazioni, anche rimproveri se è il caso, da parte dell’autorità nelle sue forme più semplici e concrete e cioè le forze dell’ordine in genere.  Senza nessuna pretesa di valore statistico, riportiamo che da maggio a oggi, da comaschi qualunque, abbiamo assistito personalmente a un solo richiamo da parte di un vigile a gente senza mascherina quando invece era obbligatorio indossarla. Un po’ pochino…

    E la troppa gente al bar? E le passeggiate in gruppo in viale Geno o ai giardini a lago? E le leggerezze, l’incoscienza, il menefreghismo di molti, qui come altrove? E gli assembramenti, solo qualche giorno fa per esempio, per andare a sciare, tutti ammassati agli impianti di risalita? E le spiagge, i bagni, le feste, le cene e gli aperitivi?

    Da Como a Roma passando per ogni angolo d’Italia ci pare evidente che chi doveva controllare non l’ha fatto a sufficienza. Le forze dell’ordine avevano anche altro di cui occuparsi, sia chiaro, ma molto è andato storto. C’erano, ma non abbastanza.

    È una resa, questa, una triste ammissione dell’incapacità di tutti noi di autoregolamentarci e di salvaguardare la salute nostra e degli altri. Ma in questa situazione di emergenza, occorre l’onestà di riconoscerlo: controllateci, anche in questa nuova fase partita oggi, da soli non ne siamo capaci.

  • Coronavirus e controllo dell’ansia

    Coronavirus e controllo dell’ansia

    di Mario Guidotti

    Tra gli effetti nocivi, molto spesso sconfinanti nella patologia, che riceviamo da questa nuova ondata epidemica di Coronavirus, non si parla abbastanza dell’ansia che genera. Chi non ne soffre pensa che sì, dai, un po’ di paura, un po’ di stress ci stia, ma non diversa da tante altre situazioni della vita di tutti i giorni. Invece no, in tante persone questo stato di allarme continuo, perdurante, in più riacceso ogni giorno da notizie inquietanti e contraddittorie, genera una condizione che sfocia in malattia, con effetti molto negativi.

    L’ansia, lo sappiamo, è al tempo stesso una reazione normale e un disturbo. È un fenomeno funzionale, destinato a sollecitare una risposta mente-corpo adattativa agli stimoli esterni. È un sistema di allarme fisiologico del mondo animale: il gatto avvicinato dal cane aumenta il battito cardiaco, la pressione arteriosa, libera zuccheri in grande quantità dal fegato, tende i muscoli, erige il pelo, alza la coda ed è pronto allo scatto. Non è diverso nella razza umana quando si deve sostenere un esame, svolgere un concorso, un gesto sportivo, ma anche quando si vede passare un vigile o un agente della finanza (ahimè, la coscienza sporca).

    Il fenomeno può essere fisiologico, ma come tanti funzionamenti automatici, cioè vegetativi del nostro corpo, può anche essere difettoso, in eccesso per esempio, e disturbarci fortemente.

    La troppa ansia può avere un effetto “bloccante” su restanti funzioni neurologiche ma anche di altri organi. La memoria per esempio può difettare e anche paralizzarsi se l’ansia è in eccesso, intendendo con questo sia in acuto ma anche in continuo, come appunto sta avvenendo in questo penoso anno del Covid. L’ansia in surplus può presentarsi al nostro cervello come un vero e proprio diaframma che non consente ad altre attività di entrare in azione, così ne risentono, oltre alla memoria, anche le facoltà esecutive e programmatiche.

    Appunto, siamo bloccati, paralizzati dall’ansia, e non riusciamo a fare altro che tornare sulle solite notizie, nella speranza che siano migliori, con il risultato che ne rimaniamo sempre più imbrigliati, quasi schiavi, rinunciando al resto della nostra vita. C’è poi chi finisce per somatizzare quest’ansia, perché il proprio sistema nervoso oltre un certo livello di allarme non lo sopporta più e lo scarica su organi diversi. Ne seguono insonnia, disturbi digestivi, intestinali, ipertensione arteriosa, cefalea, ma anche malattie della pelle e dei suoi annessi.

    Come fare quindi? Primo, la categoria che si occupa della comunicazione deve farsi un bell’esame di coscienza. Chiediamo poche notizie e certe, possibilmente non contraddittorie e da fonti attendibili. Chi invece sta male non sottovaluti, non tenga per sé il sintomo ma ne parli subito con il proprio medico per non ammalarsene e non cronicizzarlo. La consapevolezza della propria frangibilità è il primo passo della guarigione.

  • Disunità d’Italia, altro che d’Europa

    Disunità d’Italia, altro che d’Europa

    di Marco Guggiari

    Ci sono due poli di contraddizioni su cui la politica si è accapigliata questa settimana. Il primo deriva dall’interrogativo sulle riaperture: solo per alcuni territori? Meglio un po’ di giorni dopo il 3 giugno? Alla fine è stato deciso il via libera per tutti fin da mercoledì prossimo. La contraddizione non è questa, ma la bagarre tra le Regioni.

    Contraddizione evidente, anche se in controluce, rispetto alle giuste critiche che da mesi indirizziamo all’Europa, così lenta e restìa a offrire aiuti in denaro a fondo perso. Però, alla fine, la Commissione della tedesca Ursula von der Leyen ha messo a punto un corposo piano di soccorso e di prestiti. Tutto a posto, allora? No di certo.

    L’Europa resta disunita, per via dei Paesi oltranzisti, ora gentilmente ribattezzati “frugali”: Austria, Olanda, Svezia e Danimarca. Ma forse è un po’ più unita nel resto dei suoi componenti. Le nostre Regioni, invece, avrebbero volentieri frantumato l’Italia. Sardegna e Sicilia hanno chiesto improbabili patenti immunitarie, che non esistono perché il virus può arrivare pochi giorni dopo un test o un tampone che lo esclude. Tra l’altro, il nostro Paese è tuttora in ritardo sulle famose tre T: tracciare, testare, trattare. E, per quanto riguarda i tamponi, mancano sempre i reagenti. I test sierologici, poi, si possono graziosamente fare solo a pagamento.

    Con la bagarre a cui facevamo riferimento, la nazione è stata disunita da altolà e minacce di ritorsioni da Sud a Nord. Risultato: Europa, la grande accusata, un po’ più compatta. Italia, la  bistrattata vittima, più divisa. Certo, il confronto è tra soldi (dall’Europa) e salute (nelle zone della Penisola e nelle isole risparmiate dal virus).

    La salute vale certamente sempre più dei soldi, ma resta il fatto che la coerenza non è di questo mondo. E nemmeno di questa Italia. E che le sfumature contano. Come l’idea che gli aiuti europei possano essere utilizzati per ridurre le tasse. Intento sempre benvenuto e sogno di tutti gli italiani, ma che andrebbe attuato, questo sì, con le proprie forze, non pretendendo di farlo invece grazie a regali continentali.

    Anche perché, se si vinceranno le ultime resistenze europee, nelle casse del nostro Belpaese arriveranno oltre 170 miliardi, che serviranno però per fare investimenti in riforme, senza più alibi e non per la spesa corrente. Le tasse, va ribadito a beneficio di qualche ministro e dei leader di qualche partito d’opposizione, non dipendono dall’Europa, ma dalla nostra idrovora di sprechi che non conosce lockdown e dai nostri conti pubblici più che malandati.

    Il secondo polo di contraddizioni riguarda la vicenda degli assistenti civici, teoricamente 60mila volontari che dovrebbero monitorare in tutta Italia, a titolo gratuito, i luoghi maggiormente a rischio di assembramento. Nel corso di polemiche infuocate sono stati definiti, volta a volta, ronde, milizie, distributori di buona educazione, censori, sceriffi e via gradendo. Resta il fatto che non ci si improvvisa in nulla. E senza competenze, ci si espone soltanto a rischi.

    Quali i criteri di reclutamento, al di là della buona volontà di chi è disponibile? Quali regole d’ingaggio? Quale addestramento? È da dilettanti che non si sia pensato a questi risvolti. Il bando è al momento sospeso. Salviamo però il principio che sarebbe importante costituire una Protezione Civile “aggiunta”, di volontari formati adeguatamente e chiamati a svolgere determinati compiti. Quante volte lo abbiamo pensato vedendo per strada nullafacenti italiani o di altre nazionalità?

  • Banchi rotanti e alabarde spaziali

    Banchi rotanti e alabarde spaziali

    Adria Bartolich

    La scuola è iniziata, dopo mesi di chiusura, con grande fatica e sotto pressione. Da tempo ormai è al centro di polemiche e discussioni infinite su qualsiasi cosa,  dai poveri ragazzi privati dei loro rapporti sociali ai concorsi più o meno riservati per gli insegnanti, disinfezioni, mascherine, banchi rotanti  anche e per fortuna mancano le alabarde spaziali, ma quasi ci siamo. In questa fase i più tranquilli sembrano essere proprio i ragazzi, che raccontano senza grandi traumi del  lockdown, salvo rare eccezioni, vissuto tranquillamente, anzi, perfino come un periodo di libertà.

    I loro traumi da chiusura sembrano a questo punto più le proiezioni di noi adulti che altro. Non hanno avuto nemmeno grandi problemi ad abituarsi alle nuove regole.

    La fatica è tutta nell’organizzazione che il virus ha ulteriormente appesantito  e che fa esplodere tutti i problemi ormai calcificati del nostro sistema scolastico, che sono:

    1) la confusa commistione tra autonomia e direzioni ministeriali che si traduce in un mare di comunicazioni pressoché ingestibili e spesso in contrasto tra di loro.  Insomma, troppa carta;

    2) le troppe competenze diverse che sulle scuole  pesano, spazi agli enti locali, didattica  generale e reclutamento al ministero,  handicap  all’ex provveditorato, ma anche  le continue autorizzazioni da chiedere ai genitori per tutto, privacy, esoneri, uscita autonoma e chi più ne ha più ne metta;

    3) la dimensione esagerata di alcuni istituti e la mancata regolamentazione  di figure direttive e di supporto al dirigenti;

    4) la rigidità del rapporto di lavoro e se vogliamo dirla tutta anche un eccesso di tutele, che ostacola nei fatti la possibilità di selezionare il personale,  demandata ad astratte norme che consentono  a professionalità limitate, che per fortuna non sono la maggioranza, di rimanere nella scuola nonostante tutto, semplicemente cambiando istituto;

    5) da ultimo, ma in realtà è il problema più grosso, un sistema di assunzioni  in vigore da una trentina di anni , che produce precari in continuazione, non garantisce  la professionalità – perché non basta il punteggio di laurea a fare un buon insegnante – ma soprattutto non assicura mai l’avvio delle lezioni con la presenza di tutti gli insegnanti necessari.

    Già, perché anche quest’anno in molte scuole si parte con la metà dell’organico, nonostante il concorso e nonostante la  neo introdotta “chiamata veloce”.

    Il problema non è la velocità della chiamata bensì che alla chiamata risponda qualcuno e soprattutto che poi costui si presenti  e faccia lezione. Tutto come al solito , quest’anno più il Covid. Per fortuna esiste  ancora la buona volontà.

  • Clausola Covid, scuola e lavoro pubblico

    Clausola Covid, scuola e lavoro pubblico

    di Adria Bartolich

    La cosiddetta “clausola Covid” con cui si chiudono i contratti per le supplenze dei docenti assunti a tempo determinato, pare sia oggetto di parecchie lamentele da parte dei candidati supplenti. In realtà negli articoli che parlano di questo tema vengono chiamati precari, ma il termine è alquanto impreciso e parecchio abusato.

    Chiariamo. Per precario si intende qualcuno che reiteratamente viene assunto, con un contratto a tempo determinato, e licenziato alla fine dell’anno scolastico per poi essere riassunto l’anno successivo magari sulla stessa cattedra per più di tre anni. Un supplente invece, può essere nelle condizioni sopra descritte, quindi a tutti gli effetti un precario, ma anche una persona che per la prima volta in vita sua accede a una supplenza, cioè qualcuno che semplicemente sta cercando una prima occupazione o più genericamente di inserirsi nel mondo del lavoro, condizione comune ai lavoratori di molti comparti del privato. Prima hai contratti temporanei, poi se ce la fai, un’assunzione a tempo indeterminato.

    Cosa dice la clausola Covid? In sostanza chiarisce che i rapporti di lavoro per i quali si dovesse ricorrere a una risoluzione anticipata a causa del Coronavirus, saranno chiusi per giusta causa senza diritto ad alcun indennizzo in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza. Naturalmente i lavoratori in questione, se avessero maturato i requisiti necessari, avrebbero diritto alla disoccupazione come tutti gli altri a pari condizioni.

    Vi chiederete dove sia lo scandalo, e sinceramente me lo chiedo anch’io. Infatti non è qui ma sta nel fatto che il supplente smetterà di essere tale dopo anni: occorre scorrere lunghe e complicate graduatorie, avrà passato le sue giornate a studiare per conseguire costosissime certificazioni informatiche e linguistiche o di altro genere, spendendo un sacco di soldi, nella speranza di racimolare qualche punto. Le graduatorie si formano sulla base del punteggio e bisogna farne tanto, o con il servizio o con i titoli. Il vero scandalo è questo. L’inserimento in graduatoria crea l’illusione di una possibilità di sistemazione, le graduatorie sono in molti casi zeppe di persone, mentre in altre c’è il deserto dei Tartari, dato che si formano non sulla base di vere richieste ma in modo del tutto arbitrario.

    C’è la graduatoria, hai il titolo e ti iscrivi; se ci sia o meno il posto nella realtà è un’altra storia. Intanto alimenti un mercato fiorente di corsi di formazione più o meno online e più o meno seri per conseguire attestati e quindi punti, sul quale tutti tacciono. Tanto prima o poi ci sarà una sanatoria, cioè un bel concorso riservato. Però con la clausola Covid per la prima volta saranno impossibili i ricorsi e si inserisce il principio della “necessità aziendale” anche  nel lavoro pubblico.

  • Capitale della seta e delle aree dismesse

    Capitale della seta e delle aree dismesse

    di Marco Guggiari

    È dei giorni scorsi il servizio di Etv e di questo giornale sull’Hotel Petit Chateau di viale Innocenzo XI, chiuso da oltre dieci anni e preda del degrado. È lì, in una parte della cosiddetta tangenziale al confine ormai con il centro cittadino, non lontano dalla stazione ferroviaria San Giovanni. Di fronte a sé ha l’ex Danzas, anch’essa inutilizzata da tempo.

    L’occasione è buona per soffermarsi più in generale sulla questione delle aree dismesse a Como. Il loro numero, come vedremo, è molto elevato in proporzione alle altre città della Lombardia.

    In proposito basta consultare le schede della Regione. La provincia di Como ha 93 aree di questo tipo ufficialmente censite, quante quella di Brescia. In tutto il territorio lombardo, ne ha meno soltanto della provincia di Milano, che ne conta 139. La città capoluogo lariana da sola, poi, ha 41 aree dismesse, poco meno di metà di quelle dell’intera provincia. Per dare un’idea, la città di Varese ne ha 12, Lecco 5.

    Certo, Como è stata più industriale, ma Brescia non lo è certo di meno, eppure ha solo 17 aree dismesse. Milano, la metropoli, 25. I numeri danno il segno di un cambiamento d’epoca, perché la maggior parte degli edifici dismessi sono di tipo produttivo, industriale o artigianale. Como è stata una straordinaria capitale della seta. Poi tutto è cambiato, tant’è che nella nostra città, già da anni, il terziario ha superato per numero di occupati l’industria.

    Qualcosa evidentemente, visti i dati riferiti e le proporzioni in regione, non ha funzionato nei decenni, nelle amministrazioni che si sono succedute qui e nel rapporto tra queste e i privati. Il cambiamento, oltre a lasciare sul terreno molte fabbriche, non si è pienamente compiuto. Non ha determinato una quantità ragguardevole di recuperi di stabili e di terreni da destinare a nuove funzioni e attività. E questo non è buon segno, è un po’ come lasciare abbandonati luoghi un tempo pieni di vita, dopo un disastro o dopo una scorribanda nemica.

    La Regione Lombardia avvisa che le aree dismesse non residenziali rappresentano un potenziale danno territoriale, sociale ed economico e per il contesto ambientale ed urbanistico. Per promuoverne il recupero dà ai Comuni la facoltà di procedere sollecitando direttamente i proprietari a presentare progetti e, in caso di mancato riscontro, di intervenire avviando varianti urbanistiche per il recupero stesso.

    Di più, l’articolo 40 bis della Legge regionale 18 del 2019 prevede che una delibera del consiglio comunale possa stabilire che i privati proprietari degli immobili abbandonati da oltre 5 anni debbano intervenire entro il triennio successivo, decorso vanamente il quale, il Comune può imporre l’abbattimento delle strutture.

    Il fatto è che il buon esempio ai privati dovrebbe darlo l’ente locale, ma questo avviene solo in parte. Da quanti decenni ormai Como ha le sue storiche aree dismesse? La Ticosa è la madre di tutte. Ma pensiamo anche al Politeama, in gran parte di proprietà comunale, al palazzetto di Muggiò…

    Va pur detto che alcune aree private sono state nel frattempo oggetto di progetti d’intervento e che in qualche caso questi sono già in corso o sono stati compiuti. Ma non basta.

    Questo è un anno funestato. Abbiamo avuto il Covid e il confronto con la società comasca per le proposte sull’area ex Ticosa, per ridirne una, la più simbolica, è saltato, benché fosse stato annunciato dal sindaco nelle ultime ore del 2019. Non dobbiamo però rinunciare a riprendere il filo del discorso.

  • Cattedre vuote e trasferimenti

    Cattedre vuote e trasferimenti

    di Adria Bartolich

    Tra le tante sigle delle associazioni di categoria a tema, esiste anche il Coordinamento Nazionale Docenti Abilitati, una cui esponente ha dichiarato che il fenomeno delle cattedre vuote e della cronica assenza degli insegnanti nelle regioni del Nord Italia sarebbe da attribuire a quanto previsto dal Decreto Legge n. 126/2019, poi convertito in legge, che prevede il blocco quinquennale di tutti i neo-immessi in ruolo.

    Occorre sottolineare che esso non riguarda le assegnazioni provvisorie che garantiscono annualmente comunque un rapido spostamento a fronte di ragioni personali – per esempio, il ricongiungimento familiare – e che è stato varato per arginare i continui spostamenti di insegnanti i quali, immediatamente o quasi, dopo l’immissione in ruolo chiedevano di tornare nelle loro zone di provenienza.

    In realtà, almeno fino alla legge sulla Buona scuola, anno che vide la più grande assunzione di massa di precari dell’ultimo decennio, una regolamentazione c’era e si trattava della permanenza di tre anni in una sede dopo l’assunzione in ruolo, spesso comunque corretta da assegnazioni provvisorie e utilizzi.

    Dopo la Buona scuola, anche se non a causa di essa, vennero pressoché liberalizzati i trasferimenti e concesse le assegnazioni provvisorie degli insegnanti di ruolo anche sui posti di sostegno, cosa che produsse una migrazione di massa verso il Sud e un aumento vertiginoso, soprattutto in alcune zone del Paese, di certificazioni di disabilità.

    I posti del Nord appena riempiti si svuotarono e da cinque lunghi anni non sono più stati riempiti.

    Naturalmente quanto sostenuto dal Coordinamento di cui sopra evita accuratamente di fare la cronistoria di quanto è successo prima del decreto, costretto a normare per legge quello che non si riusciva a concordare nella contrattazioni tra le parti, Miur e sindacati.

    L’intricato meccanismo fa il paio con il sistema altrettanto pernicioso delle assunzioni. Non solo: oltre al Decreto ciò che impedirebbe la copertura delle cattedre al Nord sarebbero gli stipendi troppo bassi, condizione che evidentemente riguarda anche gli insegnanti del Nord. In sintesi, siccome la condizione salariale non ci soddisfa, chiediamo di tornare a casa dove la rete famigliare garantisce un diversa copertura.

    C’è da chiedersi a questo punto perché gli insegnanti del Nord dovrebbero invece accontentarsi dei loro salari, visto che il costo della vita è più alto, e anche se i sindacati possono continuare a barattare assunzioni numerose con stipendi insufficienti.

    I fautori di queste rivendicazioni siano consapevoli del fatto che questi fini ragionamenti aprono un’autostrada alla richiesta di gabbie salariali.

  • Cultura “antivirus”, esempi virtuosi

    Cultura “antivirus”, esempi virtuosi

    di Lorenzo Morandotti

    La sfida sanitaria ed economica numero uno l’abbiamo vissuta lo scorso inverno e gli strascichi li pagheremo a lungo. Adesso ci aspetta la numero due (e speriamo ultima), un’altra stagione fredda caratterizzata da incertezza su tutti i fronti, e a pagarne le spese sarà ancora una volta anche quello culturale, che paradossalmente è anche quello che dovrebbe garantire più spirito di identità, motivo di unione e condivisione di valori e di istanze.

    La voglia di resistere, di guardare oltre le difficoltà, di sperare in un futuro migliore è esemplare nei fatti dimostrati da tanti operatori del territorio che si sono occupati  in estate e si occupano anche nei prossimi mesi di programmare eventi e spettacoli nel rispetto delle regole sanitarie e senza mai dimenticarsi che siamo appesi tutti a un filo.

    Encomiabile tra le tante iniziative – difficile elencarle tutte –  la voglia di ripartenza in chi ha più responsabilità e più carico simbolico, ossia il Teatro Sociale di piazza Verdi, inaugurato nel 1813, il palcoscenico più prestigioso della provincia lariana. Sono stati mesi di lavoro intenso per riprogrammare date e interpreti.

    La prima della stagione “Notte” nel segno della grande musica sarà sabato prossimo quando alle 20 il sipario si alzerà sul “Messia” di Händel, oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra  riletto da Mozart. Da piazza Verdi sarà lanciato così un grande segno di speranza che invita a riflettere sul destino dell’umanità intera, un monumento fatto di voci e note.

    Come non condividere allora quello che un teatro più piccolo ma parimenti agguerrito scrive per lanciare la sua prossima stagione, il Cineteatro di Chiasso? «È  un  anno  difficile  questo  2020:  un  anno  che mette in  discussione  ogni  certezza  e  che  ci costringe  a  confrontarci  con  un  futuro  nuovo,  dai  contorni  sfocati  e  che  può  anche  incutere timore. La  cultura  in  senso  ampio – dalla  musica  al  teatro,  dalla  danza  all’arte – può darci conforto, trasformandosi in punto fermo nella vita di ognuno di noi, un faro che aiuti a ritrovare la strada di casa, un attimo che ci faccia stare bene».

  • Alchimie teoriche e realtà quotidiana

    Alchimie teoriche e realtà quotidiana

    di Adria Bartolich

    In questi giorni le scuole stanno predisponendo gli istituti per il ritorno alle lezioni in presenza a settembre, e non è un compito facile. Tutte le magagne strutturali e di sistema che la buona volontà  rimedia  in tempi di funzionamento ordinario, non saranno più  rimediabili  nei consueti modi in un  tempo  che richiede  misure straordinarie come quello del Coronavirus.

    Lasciamo stare per un attimo ogni preoccupazione relativa alla recrudescenza del Covid-19 che non è priva di fondamento ed è presente nella nostra vita quotidiana;  anche se la situazione dovesse prendere una buona piega e seppur lentamente normalizzarsi, rimane però quella relativa alla gestione di tutte le misure preventive che si dovranno attivare all’inizio dell’anno scolastico con regole stringenti e situazioni strutturali che, invece,  ne ostacoleranno  l’applicazione.

    Senza perdersi in dettagli, i problemi sono sostanzialmente di  due tipi: la situazione degli edifici scolastici, compreso il fatto che molte delle nostre scuole sono vecchiotte e spesso prive della manutenzione necessaria  per rendere  gli spazi funzionali,  e quella degli organici e del personale di cui dispongono le scuole,  non  in teoria ma nella realtà. Tutti coloro che hanno a che fare con la scuola  sanno bene che queste due condizioni raramente si verificano in maniera ottimale, soprattutto contemporaneamente.

    Nonostante tutte le alchimie per aggiustare i criteri, metri statici e metri dinamici, con adozione di quello statico che prefigura situazioni improbabili e cioè ragazzi che stanno fermi, le difficoltà a riorganizzare il lavoro scolastico  per sventare  le subdole ed insidiose  azioni   del virus  ci saranno, soprattutto  nel garantire lo stesso monte ore, le misure di sicurezza e la condizione imprescindibile  della presenza di tutto il  personale per garantire il servizio minimo.

    Non parliamo di efficienza ma semplicemente di garanzie che il servizio possa rimanere attivo, sapendo che il periodo non è uno dei migliori per scherzare. Un bidello assente o nullafacente creerebbe  dei rischi sociali immensi, così come un docente che non si presentasse a scuola – non sempre per negligenza ma anche per necessità –  soprattutto nella prima ora del mattino e  lasciasse  l’istituzione nell’impossibilità  effettiva di procedere a una sua  tempestiva sostituzione.

    Si dice che si potranno chiamare  anche studenti dell’università, ma già si fa da tempo. Molte cattedre sono libere e non riusciamo a coprirle, ma il ministro dell’Istruzione dovrebbe dire anche due parole su coloro che, pur avendo una cattedra, non si presenteranno in servizio. Niente di punitivo, per carità, ma misure che garantiscano la  loro presenza sì.