Categoria: Opinioni & Commenti

  • Dirigenti scolastici e antichi monarchi

    Dirigenti scolastici e antichi monarchi

    di Adria Bartolich

    Siamo nell’era dell’individualismo. È un fatto. Una folla di persone, composta da milioni di individui convinti di essere la sola ragione per cui il mondo ancora esiste, si muove disordinatamente e guidata solo dalla convinzione primordiale che gli altri siano un orpello a cui attingere solo in caso di necessità o per potere certificare la propria soggettiva magnificenza. Un incarico, più o meno prestigioso, in fondo ed in sintesi, serve soprattutto a questo. Non a svolgere un lavoro  per il quale l’incarico è necessario,  non per rendere più funzionale il sistema che si deve dirigere, ma a certificare il proprio diritto di  occupare una posizione e di prendere dalla medesima tutto quanto sia possibile in termini di vantaggi, ruolo e prestigio per poi fare quello che si vuole.

    Certo, non tutti  si comportano così, ma non pochi, invece, si comportano al pari di quei monarchi dell’antichità, stravaganti e capricciosi, a cui  la corte e il popolo  dovevano obbedienza assoluta in virtù della carica che costoro occupavano. Come in ogni buona monarchia i diritti del sovrano sono estesi anche ai suoi familiari, amici e cortigiani, Va da sé che il momento in cui abbandonare la carica venga inteso come un diritto soggettivo e  a totale discrezione dell’interessato, così come le modalità con cui esercitare il ruolo. Per cui capita, a oltre mezzo secolo dal  varo della Costituzione repubblicana, che un insigne coniuge di signora collocata in posizioni dirigenziali, a  cui viene contestato di occupare un parcheggio al quale non avrebbe diritto, possa terminare la sua arringa contro la malcapitata che gli chiedeva di spostare la macchina dicendo “Lei non sa chi sono io!” – sì, proprio così –  e aggiungendo  a chiosa titoli onorifici vari,  tra i quali  spicca quello di  marito della dirigente della scuola  vicina;  oppure che una persona il cui compito dovrebbe essere quello di fare funzionare  un’istituzione   si dichiari in malattia, e questo è un suo diritto, sparendo però pressoché nel nulla,  e sostanzialmente fregandosene sia delle responsabilità che il ruolo le impone, sia del fatto che, alle figure dirigenziali, compete una flessibilità oraria, di disponibilità e di comportamenti assolutamente diversa da quella di chi svolge lavori di tipo impiegatizio.  Poco importa se questo atteggiamento comporti un sostanziale blocco delle attività della scuola per le quali occorre l’assenso specifico del dirigente o che  queste bizzarrie lascino persone senza lo stipendio.

    Se sono titolare di  un diritto, che mi viene dato dalla posizione che occupo,  lo esercito fino all’indecenza, e tutto il resto vada pure a ramengo. E qui la domanda sorge spontanea: è giusto che una persona così occupi questo ruolo? E ancora, ci sono i livelli gerarchici superiori proprio perché intervengano in questi casi. Ho però la sensazione che dei ruoli piacciano più i vantaggi che le responsabilità a essi connesse.

  • Adesso serve la rivincita del bello

    Adesso serve la rivincita del bello

    di Nini Binda

    Giardini a lago, perché non si va alla radice del problema? Inutile pensare che con qualche palliativo, che sicuramente in breve tempo si rivelerà inefficace, si possano risolvere degrado, spaccio, abbandono e brutture. I problemi, se non si comprendono profondamente nella loro natura, non trovano soluzioni, ma solo provvedimenti temporanei che genereranno poi altri problemi.

    Mi chiedo quali siano le priorità che vengono attribuite dalle istituzioni a quel luogo custodito nel cuore di Como che oggi è allo sbando e in preda alla criminalità. Per me le periferie sono sempre state una priorità, a maggior ragione mi chiedo perché abbandonare i giardini a lago, una delle più belle zone di Como. Perché sfregiare in questo modo indegno spazi che conservano la memoria di Como e di coloro che si sono sacrificati per il bene della città? Il bello così viene trasformato in brutto con le nostre stesse mani, è un’idiozia. Dove sono finiti i comaschi e coloro che amano la città, dove sono le associazioni di categoria, perché non urlano vedendo quel che si sta facendo e con quale velocità ci si sta sporgendo tutti verso un sempre più insidioso e pericoloso precipizio? La città di Como si distingueva in passato per trovare soluzioni a problemi che l’attanagliavano, le soluzioni si sono sempre trovate – e tenevano – anche perché esiste un modo di governare coinvolgendo i cittadini.

    Mi si dirà che i tempi sono cambiati, che non ci sono i soldi, tutte frasi che dicono tutto e niente, di fatto sono solo paraventi per non trovare una soluzione. Perché non ci si ribella alla mera commercializzazione degli spazi e ci si arrende allo svilimento e al degrado culturale ancor prima che a quello effettivo sotto agli occhi di tutti? Como è diventato un brand “Lake Como”, bellissimo, ma per mantenerlo non ci si può adagiare su un colpo di fortuna avuto per un particolare allineamento di eventi fortuiti favorevoli, occorre costruire, fare sì che questo successo sia fondato, così persisterà, altrimenti tutto il successo di Como finirà nel tempo lampo di un cerino che brucia, una volta finito non servirà più a nulla.

    Una polentoteca e tre telecamere non faranno migliorare la situazione ai giardini a lago, non è questa la soluzione, quell’area va gestita diversamente, con  una maggiore attenzione e sensibilità al significato in essa racchiuso. Forse ci si è dimenticati quel che sono i giardini a lago, che monumenti custodiscono, che dignità hanno, non ci si spiega altrimenti quel che sta succedendo e che è sotto gli occhi di tutti. Tutti noi sappiamo che l’ora più buia è quella che precede il sorgere del sole, la vita mi ha fatto comprendere che dopo il brutto e la mediocrità ci sarà la rivincita del bello, quello che la città di Como merita.

  • Dalla fantasia fiscale alle prese in giro

    Dalla fantasia fiscale alle prese in giro

    di Giorgio Civati

    Che lo Stato abbia ancora e sempre bisogno di soldi non è
    una novità, è una certezza. La “macchina” pubblica tra sprechi e assurdità
    varie costa, costa tantissimo. E non ci sono alternative, perché nonostante le
    assurdità di tante spese ci sono anche voci di costo che non possono essere
    evitate, che sono basilari per la vita di tutti noi quotidianamente: sanità,
    sicurezza, manutenzioni e via discorrendo. E siccome le entrate dello Stato
    sono le tasse – vabbè, si dovrebbe anche parlare di risparmi e tagli e
    razionalizzazioni, ma questo è un altro discorso… – , eccoci al punto: le
    tasse, anzi le nuove tasse in discussione, mezze decise poi modificate,
    rimodulate, minacciate.

    In questo, va detto, il governo Conte sorretto da Pd e
    Movimento 5 Stelle ha forse battuto qualche record quanto a “fantasia fiscale”
    pensando a una tassazione quanto meno singolare. Le merendine e le bibite
    zuccherate, il gasolio per auto, la plastica, l’uso dei contanti, filtri e
    cartine per le sigarette fai da te. Più che un fisco, una severa educatrice. Ma
    è questo il ruolo dello Stato?

    Inevitabile questa manovra, dicono comunque quelli che
    l’hanno pensata, “sventolando” il non aumento dell’Iva come un pericolo
    evitato, come un successo. Sarà, ma ci pare invece che questa volta più che in
    passato la confusione sia tanta. Le tasse ipotizzate, per esempio, sono
    parecchie e confuse, penalizzano ampiamente interi settori industriali – la
    plastic tax ne è un esempio lampante – e alla fine pesano sui consumatori
    finali, che rischiano di trovarsi aumenti e ritocchi di prezzo sparpagliati e
    infiniti. Anche l’applicazione di questi nuovi balzelli ci sembra caotica se
    non addirittura confusa. E sicuramente caotiche sono le modifiche a detrazioni
    e deduzioni, che pur non essendo tecnicamente definibili nuove tasse sono
    comunque costi in più – in quanto minori “sconti” su reddito e imposte – sempre
    e ancora a carico del contribuente.

    In un Paese come il nostro che ha bisogno di una
    semplificazione fiscale vera e profonda da decenni, probabilmente in questa
    fine del 2019 si sta addirittura peggiorando la situazione. Ci ricordano che la
    famigerata Iva non è aumentata e che Ires e Irap (le tasse sulle aziende) negli
    ultimi anni sono addirittura calate. Che col bonus Renzi di 80 euro al mese
    qualche soldo in più nelle buste paga più leggere è arrivato. Che il reddito di
    cittadinanza tanto voluto dai grillini dovrebbe – forse, magari, o anche no –
    aiutare i più deboli. Tutto vero, eppure i saldi delle nostre tasse alla fine
    difficilmente diminuiranno, e altrettanto difficilmente  cresceranno i soldi a disposizione. In più la
    percezione è di caos, la sensazione come contribuenti e cittadini è che ci
    stiano prendendo in giro. E non è una bella sensazione.

  • Abolizione del superticket, boomerang sui bisognosi

    Abolizione del superticket, boomerang sui bisognosi

    di Mario Guidotti

    Sembra ormai certo che la prossima manovra finanziaria prevederà l’abolizione del cosiddetto “superticket”, il costo aggiuntivo di 10 euro sulle prestazioni specialistiche ed ambulatoriali in vigore in quasi tutte le regioni italiane. Beh, chi può essere contrario ad una delle rare cancellazioni di una tassa? Vediamo di capire, anzi di spiegare perché quel “superticket” non è lo sceriffo di Nottingham, ma al contrario il Robin Hood di chi della Sanità pubblica ha veramente bisogno.

    A parte che quell’abolizione la pagherà qualcun altro, nelle vesti di una “rimodulazione”, che vuol dire aumento del ticket sanitario per altre categorie di cittadini. Indovinate quali? Quelle che dichiarano tutte le tasse e quindi appaiono particolarmente “abbienti”, in realtà i soliti cornuti e mazziati. Sì, perché deve ancora nascere a forse non avrà mai la luce un governo (in Italia intendiamo) che riduca di un centesimo una spesa statale di oltre 800 miliardi di euro l’anno. Ma torniamo al punto iniziale.

    Quel “superticket” è (ancora per poco) il dito nel buco della diga che argina a fatica una smisurata (e spesso inutile) richiesta sanitaria, che allunga le liste d’attesa. Preparatevi quindi a tempi inenarrabili per ottenere visite specialistiche ed esami. Non c’è agenzia di studi, Università e gruppo di esperti che non abbiano detto e scritto in tutti i modi che l’unica via di contenimento della spesa sanitaria, ed a corollario delle liste d’attesa, è il ticket. Certo, appare come un odioso balzello che colpisce i più bisognosi, gli ammalati. Ma come tutte le cose vanno lette attentamente.

    Premesso che prevalgono ormai i cosiddetti “esenti ticket”: malati cronici, minori di 14 anni di età, disoccupati (davanti allo Stato, attenzione…), donatori di sangue e midollo, categorie protette di vario genere ed ultra-65enni possessori di reddito (non rendite, uno potrebbe avere anche milionate di patrimonio), familiare complessivo non superiore a euro 36.151,98 annui. Premesso questo, appunto, la spesa sanitaria, e con essa le lista d’attesa, esploderanno.

    Il ticket è fastidioso, ma è un freno. Pensate, è calcolato che più della metà delle visite specialistiche e prestazioni ambulatoriali sono inutili. Ma come? Sì, sono per Medicina difensiva, per rassicurare il malato, perché non si sa mai, perché è meglio fare un bel (e inutile) Doppler, una Tac, una Risonanza, una lastrina della cervicale. «Eh, dottore, mi prescriva una Tac un po’ dappertutto, perché mia suocera ha un brutto male ed anche io non sto poi così bene».

    Non stiamo sbeffeggiando la Medicina preventiva, né minimizziamo le difficoltà economiche di tante persone che accedono sempre meno alla Salute. Ma in questo Sistema Sanitario, e sottolineiamo in questo, dove tutto è dato, spesso inappropriatamente e quindi ingiustamente a tutti, il ticket è l’ultimo baluardo, l’ultimo bastione al fine di tenere un po’ di risorse per chi ne ha veramente bisogno. La freccia del ticket  lanciata per allontanarla dai più bisognosi tornerà in realtà sugli stessi come un boomerang.

  • Contro droga, alcol e sballo insegnare ad affrontare il dolore

    Contro droga, alcol e sballo insegnare ad affrontare il dolore

    di Mario Guidotti

    Forse perché sottovalutato, o magari sopportato come inevitabile prezzo da pagare da parte di una società disattenta e sciatta, ma sta di fatto che, come un fiume carsico, il fenomeno droga è ritornato in superficie e sta ammorbando giovani e meno giovani. Secondo alcuni il guaio nel quale siamo messi è pari agli anni ’70, quando una buona parte di una generazione si era bruciata vita, cervello e futuro in un mare di eroina ed Lsd.

    Il  consumo di stupefacenti è riesploso, i morti per overdose stanno aumentando vertiginosamente, l’età media degli iniziati è crollata. Ci sono elementi per allarmare un’intera classe dirigente, per mettere sull’attenti il mondo della cultura, della sanità, dell’istruzione e quello politico, se si concentrasse un attimo sui veri bisogni dei propri cittadini. E invece il fenomeno è confinato alle pagine di cronaca nera, agli orrori del bosco di Rogoredo o di qualche altro teatro della morte.

    Rispetto agli anni ’70 è cambiato il palcoscenico e si è trasformato l’approccio. Allora la droga rappresentava l’idea di libertà di una generazione che credeva di essersi emancipata dalle catene del passato, non accorgendosi che consegnava le proprie volontà al mercato della morte. Ora il fenomeno è diverso, ci siamo talmente ubriacati di libertà negli ultimi decenni, al punto che non sappiamo neppure che cosa farcene. Abbiamo licenziato Dio, come cantava De Andrè, ed insieme le autorità, le regole, le istituzioni, la cultura, la conoscenza, la competenza, la scala dei valori, ed allora dobbiamo pur metterci qualcosa in questo vuoto che resta.

    Avanti quindi lo sballo, lo cerchiamo con qualsiasi cosa: cocaina, anfetamine, ecstasy, shaboo, alcool a fiumi. Dicono si tratti di una vera mutazione antropologica, alla base di una crisi totale. Non ci sono sostanze psicotrope meno pericolose di altre in questo senso, perché il vero dramma è la dipendenza da qualcosa che debba estraniarci dalla coscienza. Si chiami metanfetamina o “binge drinking” poco cambia.

    Siamo più liberi alla fine di tutto questo? E dove sta l’inizio, dove risalire? Il capo della Polizia afferma che il 98% delle persone che arrivano a sostanze mortali hanno iniziato da quelle considerate di evasione. Ma non è questa, per una volta vi prego, la polemica che ci interessa ma, come sostiene il giornalista Antonio Polito, la vera riflessione ineludibile è perché diamo per scontato che la fuga dal male debba avere l’aiuto e il conforto di una sostanza. E, aggiungiamo noi, altre soluzioni ormai alla portata legale, che rappresentano sempre una scappatoia.

    Se vogliamo eradicare il fenomeno della dipendenza dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi, ma anche alle nostre donne e uomini adulti, che il dolore va affrontato e attraversato. Altrimenti si cade in soluzioni che presentano costi immani e talora mortali. È ora di dire basta allo sballo, alla fuga dentro di noi dalle cose che in realtà sono fuori. Insegniamo poi a chiedere aiuto a chi è nel dolore, e soprattutto, se questo ci viene sollecitato, non neghiamolo.

  • Agonia immeritata in attesa del rilancio

    Agonia immeritata in attesa del rilancio

    di Lorenzo Morandotti

    Povero Patria. Viene da parafrasare una sempre emozionante canzone di Franco Battiato se si considera la lunga storia del piroscafo. Sono  quasi 277 tonnellate di stazza lorda (quasi 54 metri di lunghezza). Ferme al palo a Villa Olmo. Bel vedere da lontano, da vicino un po’ meno come chiunque può constatare. Un simbolo della navigazione lariana che è già scampato a  guerra e incuria. Dal degrado è stato strappato quasi in extremis grazie alla caparbietà di alcuni comaschi degna del Fitzcarraldo protagonista dell’omonimo film del 1982 di Werner Herzog, quello  in cui si vede trasbordare una vera nave, senza effetti speciali, da un lato all’altro di una  montagna. «Chi sogna può muovere le montagne», si dice nel film. Ma i sogni all’alba sono destinati a scontrarsi con la dura realtà. A volte l’alimentano, la rendono più sopportabile. Ma altre volte non la sopportano e si infrangono. Il Patria è in attesa di un restauro che gli permetta di avere un destino nella filiera  del turismo. Per ora è un bel fiore appeso all’occhiello di Villa Olmo dove è di fatto già stato ammirato e utilizzato come corollario della storica dimora.

    Vorrebbe fare di più ma non gli è concesso. Può navigare, ma per ora può farlo solo se trainato o come si dice in gergo “assistito”  dato che è sospeso il suo certificato di classe fornito dal Registro Italiano Navale (Rina), che rientra tra gli enti assoggettati alla vigilanza del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Situazione di stallo da considerare di normale amministrazione, per carità, ma simbolica.  Sarà il futuro gestore a doversi assumere l’onere degli adeguamenti tecnici, delle revisioni  e della nuova certificazione presso il Rina. Una situazione che ha del paradossale, qualcuno in vena di semplificazioni potrà   chiamarla «tipicamente all’italiana», altri tirerà fuori la metafora altrettanto facile del Titanic, dimenticando peraltro il rispetto dovuto alle vittime della tragedia  del 1912. Ma lo stallo del Patria è di fatto qualcosa di sconcertante e di immeritato, l’agonia di un vecchio eroe che potrebbe se messo in condizioni di farlo regalare ancora emozioni e sogni ai suoi ospiti.

    E intanto gli agenti del tempo proseguono inesorabili la loro corsa naturale, ruggine e pioggia fanno sentire ai terrestri lo scorrere dei giorni  in modo più evidente di qualsiasi calendario da ufficio, proprio perché incidono su una superficie uscita rinnovata dal restauro con lo stridio che farebbe un’unghia sul vetro o un gessetto sulla lavagna.

    E intanto sulla vicenda Patria, sul suo stazionare paradossale di fantasma galleggiante davanti alla villa che è il simbolo di Como, pur avendo corpo e macchine funzionanti, aleggia il destino sinistro di un altro piroscafo, esso sì fantasma e relitto vero, pura ferraglia senza né motori né apparati di navigazione: è il Plinio, che giace a oltre 40 metri sotto il lago di Mezzola a Verceia. Affondò dopo un temporale, per aver imbarcato troppa acqua. Una spada di Damocle pesante tonnellate.

  • Arte sacra, patrimonio che non va dimenticato

    Arte sacra, patrimonio che non va dimenticato

    di Lorenzo Morandotti

    Secondo San Gerolamo «ignorare le Scritture significa ignorare Cristo stesso». E ignorare le immagini che  quelle Scritture raccontano agli occhi? Mentre si avvicina una grande mostra sui calici sette e ottocenteschi della Cattedrale di Como è all’orizzonte l’apertura (primavera 2020) del museo diocesano dei tesori del Duomo. E la chiesa lariana prosegue nella massiccia opera di catalogazione dei suoi beni culturali. Ma siamo in grado oggi, dopo tanta secolarizzazione, di cogliere il senso autentico delle opere che affrontano, per commissione o autentica fede o ambo le cose  i racconti tramandati come verità rivelata dalla Chiesa? Quest’ultima ha l’onere e l’onore della conservazione sui territori diocesani, ma forse occorrerebbe una azione più corale di alfabetizzazione sul senso del sacro nell’iconografia. Solo la conoscenza appassionata  e non un mero regesto per quanto puntuale può   consentire di difendere questi tesori dagli attacchi del tempo e dall’avidità dei predatori. Va ricordato che in non poche  chiese  lariane decorazioni di pregio sugli altari sono state sostituite da copie fedeli ma soddisfacenti per l’estetica; ma  non sempre questa pratica virtuosa da collezionisti è esercitata e sicuramente non potrebbe esserlo per la totalità dei pezzi da custodire. Per coltivare una più matura e condivisa conoscenza dei linguaggi dell’arte sacra è utile  una iniziativa a ingresso gratuito giunta alla seconda edizione, a cura degli “Amici dei Musei” nella Pinacoteca di via Diaz 84 a Como. Il ciclo di conferenze si intitola “Itinerario iconografico – Il significato delle immagini religiose nelle opere d’arte” e quest’anno gli appuntamenti riguardano i santi, che spesso fatichiamo a identificare in  un dipinto o in una scultura. Serve quindi tornare umili e imparare. Il corso si propone un esame per categorie, dalle origini paleocristiane alla fine dell’Antico Regime, con particolare attenzione al territorio comasco sia nel senso delle devozioni proprie (Abbondio, Fedele, Carpoforo) sia in quello della presenza di cicli dedicati a santi di devozione universale. Il ciclo è tenuto dal professor Andrea Spiriti, ordinario di Storia dell’Arte Moderna all’Università  dell’Insubria, e si svolge nel salone incontri di Palazzo Volpi, dalle 18 alle  19.30. Prossimo appuntamento il 7 novembre. Più pubblico ci sarà, più speranze avremo di tutelare i nostri tesori.

  • Docenti, assunzioni e il mistero dei numeri

    Docenti, assunzioni e il mistero dei numeri

    di Adria Bartolich

    Da un recente dossier pubblicato dalla Cisl Scuola,
    reperibile su Internet,  sull’andamento
    delle assunzioni  e del precariato,
    emergono dei dati interessanti e  al
    contempo particolarmente  preoccupanti.
    Dallo studio infatti  si ricava che, se
    nei primi cinque anni dell’ultimo decennio, le assunzioni nella scuola sono
    state  circa 100.000, negli ultima
    quattro anni sono  salite a circa
    190.000. Quasi il doppio. Certo, nel frattempo è stata introdotta “Quota 100”,
    con pensionamenti anticipati, che nella scuola sono stati abbondantemente sotto
    le 10.000 persone. Ci mettiamo anche un po’ di opzioni donna, cioè la misura
    che dà la possibilità alle donne di uscire anticipatamente con una decurtazione
    di quasi di 1/3 della pensione, quindi in condizioni non particolarmente
    vantaggiose, e perciò utilizzata con particolare cautela. Rimane però da capire
    cosa non funzioni nella programmazione del Miur per i  dipendenti della scuola. Infatti, se nel
    2011, in anni di piena crisi economica, le assunzioni  procedono a una media di circa 20.000
    all’anno, con punte più alte e più basse, ma che comunque possiamo definire
    quasi fisiologiche, la ragione per cui  a
    partire dal 2016/17  la media delle assunzioni
    annuali  quasi raddoppia, attestandosi
    attorno ai 47.000 (arrotondata per difetto) resta francamente un mistero. E il
    fenomeno è ancora più inspiegabile se, alla cospicua media degli ultimi quattro
    anni,  aggiungiamo la storica assunzione
    di  102.734 precari effettuata dal
    governo Renzi  con la Buona Scuola nel
    2015, con il conseguente azzeramento di molte graduatorie ad esaurimento, che
    porta il totale complessivo negli ultimi cinque anni  alla ragguardevole cifra  totale di 291.134 e alza la  media annuale 
    dai circa 20.000 all’anno del 
    primo quinquennio ai quasi 60.000 (58.351 per l’esattezza) attuali. Si
    dirà che l’obiettivo, assolutamente encomiabile, era la riduzione del
    precariato, ma poi  se andiamo a vedere i
    dati relativi ai supplenti annuali, gli incarichi cioè che attribuiscono gli ex
    provveditorati  e sono solo una parte
    delle supplenze (poi ci sono quelle con la chiamata effettuata dai dirigenti
    )  vediamo che aumentano anche queste. Se
    nel 2010/2011 sono 115.700 (con le assunzioni quasi bloccate dalla crisi) , nel
    2018/2019 sono state 155.000 e comunque sempre in incremento dall’anno della
    Buona scuola. Certo, sarebbe interessante vedere anche come sono  distribuite sia le assunzioni che le
    supplenze, altrimenti siamo alla famosa media del pollo, ma questo non lo
    sappiamo. Però la  domanda nasce  spontanea: cos’è successo?  Specialmente 
    se pensiamo che il numero degli alunni è diminuito. E soprattutto, dove
    sono, visto che qui battagliamo ancora per avere gli insegnanti di sostegno e i
    supplenti?

  • Da 18 secoli sono finite le mezze stagioni

    Da 18 secoli sono finite le mezze stagioni

    di Agostino Clerici

    «Devi sapere che il mondo è invecchiato e che non ha più
    quel vigore e quella forza sui quali prima poggiava. Ed è il mondo stesso che
    parla e testimonia il proprio tramonto. Non ci sono più così tante piogge in
    inverno per nutrire le sementi, non c’è più il solito calore in estate per fare
    maturare i frutti, né la primavera sorride più del suo bel clima, né l’autunno
    è così fecondo dei prodotti degli alberi. Sicchè nessuno deve meravigliarsi che
    nel mondo ogni cosa abbia cominciato a venir meno, dal momento che il mondo
    stesso ormai è sfiancato e prossimo alla fine». Non sono parole tratte da
    qualche manifesto ambientalista del ventunesimo secolo, ma sono l’attestazione
    del cambiamento climatico fatta da un vescovo cristiano del Nord Africa,
    Cipriano, a metà del terzo secolo. Come? Già diciotto secoli fa le stagioni non
    erano più quelle di una volta? Non solo. Se si deve dar credito alla tesi dello
    storico statunitense Hyle Harper, la gigantesca costruzione imperiale romana
    crollò proprio sotto i colpi capricciosi degli sconvolgimenti climatici che
    investirono l’impero a partire dalla metà del secondo secolo. Non le invasioni
    dei barbari o la corruzione civile e morale provocarono la rovina dell’impero
    romano, dunque, ma furono i prolungati periodi di siccità a spingere le
    popolazioni nordiche verso Sud. E fu un cambiamento climatico a rendere i
    nuclei urbani sovraffollati l’habitat ideale per la diffusione di germi e
    pandemie spaventose che sconvolsero la demografia. Insomma, la colpa fu
    dell’uomo, ma anche di un clima che, dopo gli anni del caldo-umido ottimale,
    divenne imprevedibile e ingovernabile. Per contestualizzare le parole del
    vescovo africano del terzo secolo, bisogna ricordare che egli le scrisse per
    difendere i cristiani dalle accuse formulate dai pagani di essere la causa di
    cotanti flagelli e dell’imminente fine del mondo. No – scrive il cristiano
    Cipriano al pagano Demetriano, mostrando una moderna sensibilità ambientale –
    sono solo il frutto di un cambiamento climatico. Del resto, tutte le volte che
    finisce un mondo, i nostalgici sono propensi a presagire allarmisticamente la
    fine del mondo. Invece sono due cose diverse. I mondi cambiano, il mondo resta.
    Ma vale anche oggi per noi, cittadini, divenuti numerosissimi, di un pianeta
    malato? La discussione è aperta e si può anche manifestare, più o meno
    folkloristicamente. A offrire risposte, però, non può essere la piazza, ma deve
    essere la scienza. Servono a poco emozioni belle e passeggere da portare in
    giro per le strade con cartelli colorati pieni di frasi fatte. Urgono
    motivazioni date da persone che studiano, analizzano, discutono (perché
    l’unanimità sui temi ambientali non c’è) e formulano modelli scientifici,
    mettendoli sui tavoli della finanza e della politica, cioè di chi può
    effettivamente attuare le decisioni per cambiare le cose. Il problema esiste,
    sia chiaro, al di là di ogni negazionismo, ma è molto più complesso – sia
    nell’impostazione che nella soluzione – di quanto lasci intendere il populismo
    ambientalista di Greta Thunberg. «Vi terremo d’occhio», ha detto con tono
    astioso all’incontro delle Nazioni Unite sul clima, arrogandosi un ruolo che
    richiede un’autorità e una competenza scientifica che la giovane svedese non
    ha.

  • Contraddizioni urbane tra gioielli e degrado

    Contraddizioni urbane tra gioielli e degrado

    di Lorenzo Morandotti

    Sabato e domenica in occasione della Lake Como Design Fair
    l’Ordine degli Architetti  ha  organizzato visite guidate ai monumenti del
    razionalismo a Como e aperto nella sua sede al Novocomum di Giuseppe Terragni
    in viale Sinigaglia  l’esposizione
    permanente di cartoline del progetto “Fisionomie Lariane”, documentato anche da
    un elegante volume. È il risultato di cinque anni di indagini della Commissione
    Cultura dell’Ordine comasco sull’identità 
    del nostro territorio attraverso un inventario di casi-chiave significativi
    che diventano cifre identitarie, una sorta di identikit-mosaico. Che va dalla
    Pietra Pendula del Montepiatto  ai
    Cantieri della Navigazione di Tavernola, dai monumenti di  Terragni a quel segno lasciato dalla
    modernità sulla collina che sovrasta il capoluogo che è l’autostrada. Il volume
    arricchito da splendide foto (undici gli autori coinvolti) si amplia nella
    mostra permanente di cartoline che il visitatore del Novocomum può  consultare in una ampia bacheca e  spedire come ricordi da Como se ha ancora
    questa usanza ormai ritenuta vetusta in tempi di social network ma  tangibile e solida e quindi forse da
    recuperare se non si vuole cedere del tutto al conformismo liquido dei tempi.
    Libro e cartoline sono l’esempio di un dialogo intelligente tra studiosi e
    cittadinanza, meritevole di aprire ulteriori dibattiti pubblici sul destino dei
    luoghi che viviamo quotidianamente. Il visitatore della sede degli Architetti
    lariani ha la sensazione che questo dibattito non sia più procrastinabile
    appena uscito dall’edificio del Novocomum che compie giusto novant’anni. E
    infatti trova una zona giardini e la “cittadella razionalista” sul lungolago
    che lasciano a desiderare, e  i
    marciapiedi che delimitano lo stesso Novocomum crivellati di buche. Una
    passeggiata attorno allo stadio Sinigaglia può bastare per rendersi conto dello
    stato in cui versa la zona giustamente ritenuta di pregio ma non all’altezza
    del lignaggio sul fronte estetico. Contraddizioni che vengono al pettine in una
    città che si dice turistica. È come se per arrivare a un monumento come
    Sant’Abbondio – altro tesoro documentato nel volume insieme all’area fortemente
    antropizzata che lo contiene (dove insistono anche l’Università dell’Insubria e
    la cittadella dell’informazione che comprende il nostro giornale ed Espansione
    Tv) – si dovesse passare per un’area gravemente dismessa  (ex Ticosa), allietati dai miasmi di un
    depuratore. Assurdo, no?